Hòlderlin il mio amico folle

«Che fatica farlo uscire dalla stanza Teme sempre che lo abbandoniamo» A150 anni dalla morte scoperte nuove lettere del falegname che lo curò Hòlderlin, il mio amico folle Giorno per giorno, i tormenti nella torre EA follia di Hòlderlin giorno per giorno: a 150 anni dalla morie a Tubinga del grande poeta, l'editore J. B. Metzler di Stoccarda pubblica importanti documenti, inediti sulla follia e sugli ultimi anni di vita. Il libro, curato da Gregor Wittkop, ha per titolo: Hòlderlin. Der Pflegsóhn (L'assistito). Contiene 42 lettere finora sconosciute scritte ai famigliari del poeta dal falegname che lo ospitò. Nel settembre del 1806, quando ormai il suo male non lasciava più alcuna speranza di guarigione, Hòlderlin era stato portato nella clinica di Tubinga diretta dal dr. Autenrieth. Vi rimase circa otto mesi, oggetto più di curiosità che di cure. Quando anche i medici si dettero per vinti, si fece avanti un falegname della città, Ernst Zimmer. Era una persona colta, certamente più di quei medici, perché aveva letto gli scritti di Hòlderlin, fra cui Ylperione. Promise di trattare il malato con amore e devozione. E mantenne la promessa. Nella clinica gli avevano detto che era «inguaribile» e che sarebbe vissuto ancora tre anni al massimo. Invece ne visse altri 36. La casa di Zimmer esiste ancora, compresa una specie di torre in cui si trovava, al secondo piano, la stanza del poeta. Quattro volte l'anno, a scadenza regolare, il dotto falegname scriveva ai parenti del malato per informarli delle sue condizioni. Prima scrisse alla madre che, triste a dirsi, non si recò mai dal figlio; poi, dopo la morte della donna (nel 1828), scrisse al tutore. Si conoscevano solo dodici di queste lettere. Le 42 ora scoperte erano nell'archivio di Nùrtingen, la città in cui la madre del poeta si era trasferita dopo il secondo matrimonio. Insieme con altri documenti pure inediti, gettano nuova luce sulla vita quotidiana di Hòlderlin. Anche se nel secolo scorso era di gran lunga meno famoso di oggi, molti andavano da lui per vederlo, per intervistarlo, talvolta anche per derubarlo di qualche manoscritto, e soprattutto per imbastire qualche teoria sulla sua «sacra follia». E capitavano anche di quelli che erano ancora più pazzi di lui. Ne abbiamo una prova nella lettera di Ernst Zimmer del 17 luglio 1833: «Due giorni fa è venuto nella nostra casa, alle 8 di sera, un signore che portava in testa un lungo cespo d'insalata. Voleva entrare nella stanza di Hòlderlin, asserendo che veniva da Nùrtingen e che aveva una commissione per Hòlderlin da parte della sorella. Siccome Hòlderlin era già a letto, l'abbiamo mandato via». Non sempre, però, si riusciva ad allontanare i curiosi. Come reagiva il poeta? Di solito con una girandola di nomi pescati nell'aria, dietro i quali cercava di nascondere la propria identità: «Io, mio signore, non sono più dello stesso nome, ora io mi chiamo Killalusimeno». Oppure diceva di chiamarsi «Scardanelli» e «Buonarroti», alludendo a Filippo Buonarroti. Probabilmente non gli piaceva sentirsi chiamare Hòlderlin, che significa «piccolo sambuco» e che un tempo, nella superstizione popolare, era il nome del diavolo. Guai, poi, a chiamarlo con il suo titolo accademico di «Magister»: diventava furibondo. Ai visitatori, invece, dava a profusione titoli non solo nobiliari, ma anche regali e perfino papali, come «Vostra Maestà» e «Vostra Santità». Era un modo per difendersi dal mondo? Le lettere ci informano su tutto quello che faceva, dalla mattina alla sera: su come suonava il piano che gli aveva procurato Zimmer, perdendosi per ore sul- la variazione di uno stesso motivo, sulla sua meteoropatia, sugli attacchi occasionali di pazzia furiosa e sul suo totale disinteresse per il mondo estemo. Una volta Zimmer scrive: «Questa notte è divampato il fuoco accanto alla mia abitazione, il che ha provocato un enorme scompiglio nella casa. Ma Hòlderlin è rimasto tranquillamente nel suo letto. Il fuoco è stato subito spento, però in tutta la città si era già incominciato a suonare le campane». Alle circostanziate informazioni della famiglia Zimmer si accompagnano conti di sarti e di calzolai. Si tratta di testimonianze mute che, se interpretate bene, ci aiutano a capire ancora di più il tormento di quel grande spirito precipitato nella notte della foiba. Come si spiega il consumo di tante scarpe e di tante camicie da parte di un uomo che se ne stava per lo più nella sua torre? Ce ne dà una spiegazione questa lettera: «Lei non può farsi un'idea di come strappi le camicie molto più della gente che lavora duramente. Ha sempre le mani nelle maniche e ci gioca». Non potendo spezzare le catene del destino, lacerava quello che aveva addosso. Nella sua stanza Hòlderlin non sopportava cambiamenti. Quando bisognò rifare le finestre si mise subito a imprecare. Ernst Zimmer racconta: «Di notte, se gli viene un'idea mentre è a letto, ha spesso l'abitudine di alzar- si, di aprire una finestra e di comunicare l'idea all'aria libera. Ma ora, con le nuove finestre, la cosa non gli è più così facile, in quanto le finestre non si aprono comodamente come prima». Ma aveva anche paura, il povero Hòlderlin, che lo mandassero via, lui il «fulminato da Apollo». Ce lo racconta Lotte Zimmer, che dopo la morte del padre, avvenuta nel 1838, fu una specie di santa per il malato. Questi, nella primavera del 1839, dovette essere messo in un'altra stanza, perché quella della torre doveva essere imbiancata. E la giovane Lotte scrive: «Ogni volta che abbiamo fatto un simile lavoro abbiamo sempre paura, dato che ci vuole molta arte della persuasione per indurlo a obbedire. Diventa subito diffidente e crede che debba andarsene via». Lotte Zimmer voleva molto bene al «caro Hòlderle», come lo chiamava in dialetto. «Riceve tutto ciò di cui ha bisogno e non gli faccio mancare niente», scriveva ai parenti dell'infelice, i quali, pur essendo benestanti, non si erano mai mossi per soccorrerlo. E proseguiva: «Naturalmente, non penso che quello che gli diamo debba essere calcolato in base agli 8 soldi che ci vengono mandati». Probabilmente i parenti si vergognavano di avere un congiunto «folle», anche se aveva scritto alta poesia, a cominciare dalla splendida elegia Arcipelago. Ma questo lo capiva il falegname Zimmer e non lo capivano, invece, i congiunti. A pensarla come loro ci sono ancora alcuni abitanti di Lauffen, luogo natale del poeta. Quando, tempo addietro, chiesi a un signore del posto di indicarmi la casa natale o magari solo la lapide, quello, per tutta risposta, si portò l'indice a una tempia e disse che «Hòlderl» era «pazzo». Così il mondo ripaga i figli delle Muse. Anacleto Verrecchia «Che fatica farlo uscire dalla stanza Teme sempre che lo abbandoniamo» notte, se gli viene idea, si alza libera nell'aria» lo curò olle orre notte, sidea, si libera nFriedrich Hòlderlin visto da Levine [COPYRIGHT .THE NEW YORK REVIEW OF BOOKS». ILPA E PER L'ITALIA -LA STAMPA.) Ma aveva anche paura, il povero Hòlderlin, che lo mandassero via, lui il «fulminato da Apollo». Ce lo racconta Lotte Zimmer, che dopo la morte del padre, avvenuta nel 1838, fu una specie di santa per il malato. Questi, nella primavera del 1839, dovette essere messo in un'altra stanza, perché quella della torre Lottva moro Hòchiam«Ricevcui hagli fanienteparenquali, nestanmai mdati». Probabilmvergognavano digiunto «folle», ascritto alta poesidalla splendida go. Ma questo logname Zimmer eno, invece, i congla come loro ci soni abitanti di Lautale del poeta. addietro, chiesi a Friedrich Hòlderlin visto da Levine [COPYRIGHT .THE NEW YORK REVIEW OF BOOKS». ILPA E PER L'ITALIA -LA STAMPA.)

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