DOPO IL SUCCESSO

Se Bossi fa suo lo stile di Craxi DOPO IL SUCCESSO Se Bossi fa suo lo stile di Craxi QUANTO è successo l'altro ieri sera, a Torino, la dice lunga sulla mentalità della Lega Che Vince, quando vince. L'esclusione dei leghisti dal pubblico di «Milano, Italia» ha dato luogo a una sorta di assedio intorno al teatro e ha determinato scontri con la polizia e alcuni feriti. Sullo sfondo c'è la denuncia, da parte della Lega, di presunti brogli o, comunque, di irregolarità nel primo turno elettorale. Questo sospetto, se confermato, richiederebbe l'immediato ripristino della legalità: qualunque ombra sullo svolgimento del voto del 6 giugno rappresenterebbe un'ipoteca negativa sulla nuova stagione politica che si apre. Ma non va taciuto che un'ipoteca altrettanto negativa è quella che emerge dai comportamenti della Lega Nord. La Lega Che Vince esprime una concezione schiettamente proprietaria della democrazia, dei suoi istituti e delle sue regole. Per questo l'episodio di Torino assume un significato esemplare; la Lega pretendeva di accedere al teatro perché lì erano presenti -Diego Novelli e Valentino Castellani: dunque, «perché noi no?». Ma ciò rivela una concezione, appunto, «possessiva» della dialettica democratica. E invece, in una democrazia matura, la conquista della maggioranza dei voti non implica l'assegnazione, per automatismo, di una quota corrispettiva di potere in tutte le sedi e le istituzioni: dai posti in teatro per «andare in tivù» fino ai consigli di amministrazione delle Usi e della Centrale del latte. Questa è nient'altro che la vecchia, cara, immarcescibile lottizzazione: strumento, appunto, di quella concezione delle istituzioni come «cosa nostra» che la Lega diceva di voler combattere. Ma era, "quella, la Lega di Prima del Trionfo. Ora il suo linguaggio è il linguaggio della partitocrazia: «Milano è della Lega, Milano ce la prendiamo» (Marco Formentini); e «Il Friuli è nostro» (Umberto Bossi). Eccola, ancora, quell'idea proprietaria dei processi I democratici che sembrava | tramontata insieme a Bet- tino Craxi e a Cirino Pomi- cino. Così non è: e non solo perché quell'idea cova tenacemente all'interno dell'azione politica e si accompagna ai vincitori. Anche perché quell'idea è congeniale alla mentalità della Lega e al suo «senso comune». Non si tratta come troppi credono - di una mera questione di stile. Il linguaggio violento, l'aggressività, il disprezzo degli avversari non sono le manifestazioni di una nuova «rude razza pagana», che ignorerebbe i tatticismi della vecchia politica: sono, invece, il segno di una concezione autoritaria delle relazioni politiche e sociali. Una concezione che - mediata per ragioni di opportunità - si esprime irresistibilmente attraverso i lapsus, i tic, i modi di dire. E attraverso, ad esempio, la struttura organizzativa della Lega, autentico partito «leninista» (con tanto di sindacato leghista come «cinghia di trasmissione») che perpetua un rapporto gerarchico tra la leadership e i militanti: e tra la società politica e la società civile. Un partito dove qualunque dissenso è assimilato al «tradimento» e dove i consiglieri eletti firmano, e consegnano al capogruppo, una lettera di dimissioni in bianco («non si sa mai...»). Quest'ultimo fatto va tenuto presente con riferimento alla composizione dei Consigli comunali dopo il secondo turno. A Milano, in caso di vittoria di Marco Formentini, la Lega avrà grazie al premio di maggioranza - 36 consiglieri su 60. Così vuole la legge, ovviamente, e non c'è nulla da eccepire dal punto di vista giuridico: ma dal punto di vista politico è difficile pensare che i 36 firmatari di una lettera di dimissioni preventive, possano poi diventare altro che 36 yesman. Viene così bloccata sul nascere, nella rappresentanza politica della Lega, qualsiasi potenziale dialettica di opinione, di interessi, di coscienza. Il rischio è, dunque, il predominio di un «partito unico»: nuovo quanto si vuole, ma - ahimè - così prevedibile. Luigi Manconi

Luoghi citati: Friuli, Italia, Milano, Torino