Sfidare l'ora dei vampiri per non pèrdere Wilder il magnifico
r TIVÙ' & TWU# Sfidare Vora dei vampiri per non pèrdere Wilder il magnifico PER improvvisare tene, bisogna provare moto a lungo», scherza Bill' Wilder nella prima parte d'uni eccezionale intervista televisva realizzata da Volker Schlder.dorff e introdotta da Vieri 'Razzini che Rai3 trasmette stanotte intorno a mezzanotte. Le atre due parti andranno in ondi le prossime domeniche, 20 e 4 giugno, sempre alla stessa oA dei vampiri: ma vale la pena a restare svegli per rivedere brari di film incomparabili, per asciare l'autobiografia esatta, spiritosa e seria d'uno dei più grandi registi e degli uomini più ballanti del mondo. Samuel «Bilt» Wilder, viennese, ha 87 ami portati con ironia, è elegante con una piccola faccia da tartiiiga. E' nel cinema dal 1929. J' a Hollywood dal 1933, da quaitìo lasciò Berlino e poi l'Europalairavvento di Hitler. Ha aretto commedie straordinariécome «A qualcuno piace caldo»'0 «Prima pagina»; storie dell'Anerica in nero come «Giorni penuti», «L'asso nella manica» o «fiale del tramonto»; capolavori erdonici come «Stalag 17»; favole di grazia sentimentale còne «Arianna» o «Sa- I lag : I men 1 brina». Senza di lui, Marilyn Monroe, Audrey Hepburn, William Holden, Ray Milland, Jack Lemmon o Walter Matthau sarebbero stati diversi, certo meno bravi. Nessuno ha come lui malinconia e cinismo, ritmo e durezza, intuito infallibile per il gusto popolare e coerenza implacabile nell'attacco alle ipocrisie dominanti. Vegliato dai suoi sei Oscar allineati sullo scaffale, in maniche di camicia e bretelle, in questa prima parte dell'intervista Wilder parla di Marlene Dietrich («E' stata in guerra più di me e certo molto più di Eisenhower»), di Raymond Chandler («Non sapeva scrivere una sceneggiatura»), di tanti altri. Riflette sul suo mestiere («Chi ha paura che la gente non lo capisca non è un regista»), discute i suoi film con una concretezza da artigiano superbo: «Questo lavoro non l'ho mai fatto in modo nevrotico. Io non sono Fritz Lang, che arrivava sul set alle cinque del mattino per disegnare sul pavimento ogni spostamento e movimento da far eseguire agli attori. Non sono neppure narcisista: quando un film è finito, è finito. Passato, basta». Racconta come alla vigi¬ lia del debutto andò da Ernst Lubilsch, gli confidò: «Domani dò il primo giro di manovella al mio primo film e mi cago sotto», al che Lubitsch rispose: «Io faccio il mio settantesimo film e mi cago sotto tutti i giorni». Racconta come, alla vigilia della «prima» de «La fiamma del peccato», «sono andato in Sinagoga, ho pregato, ho sperato e supplicato». Ricorda che «Giorni perduti» fu «il primo film americano in cui un alcolizzato non è comico». Illustra il documentario che girò in Germania nel 1945, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, tra radure di macerie berlinesi e immensi prati coperti da centinaia di cadaveri di vittime del nazismo: sua madre, sua nonna, sua moglie e tutti i suoi parenti erano stati sterminati ad Auschwitz. Dice di essere contro «i discorsi pomposi e lo sventolìo di bandiere», chiarisce cosa vuol dire per lui cinema impegnato: «Se tieni a un grande tema, devi nasconderlo in una storia molto ben costruita che funzioni, che' piaccia al pubblico, che porti la gente al cinema e la tenga sveglia in sala» Lietta Tomabuoni
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