Trabocchetto o eutanasia? di Augusto Minzolini

Trabocchetto o eutanasia? Trabocchetto o eutanasia? Gli inquisiti tra rabbia e rassegnazione IL PALAZZO SI DIVIDE PROMA. INO Leccisi, deputato de pugliese, da qualche mese nel mirino dei giudici, ci pensa su un attimo, con gli occhi di chi non sa cosa ha tra le mani, se le chiavi del paradiso o un congegno che potrebbe rivelarsi una trappola letale. Poi, all'improvviso, si adombra, con l'aria di chi ha avuto una brutta sorpresa. «Questa proposta di Di Pietro mi puzza - esclama -, questa è un'eutanasia e noi rischiamo di diventare un gruppo di evirati». Chi si aspettava che la «soluzione» del giudice Di Pietro a Tangentopoli avrebbe suscitato l'entusiamo dei perseguitati del Palazzo, ha sbagliato di grosso. Volti sorridenti? Nessuno. Riflessivi? Moltissimi. Incavolati a morte? Parecchi. Eh sì, dopo aver letto e riletto in controluce quella notizia, nessuno degli «avvisati» della politica ha brindato con lo' champagne. Al massimo qualcuno ha cominciato a farsi i conti, pensando alla propria situazione personale. I più, invece, hanno interpretato quell'uscita del magistrato di Mani Pulite, più o meno, come le condizioni della resa. «La verità - spiega Paris Dell'Unto, vecchio capo dei socialisti romani incappato in più di un'inchiesta - è che ci hanno già massacrato. E questa proposta serve solo a darci la possibilità di arrenderci. E non è che ci offrono una grande scelta: chi vuole andare avanti, dovrà aspettare 10 anni per il processo, spendere tanti soldi per gli avvocati e, naturalmente, dovrà rassegnarsi a non candidarsi alle prossime elezioni come inquisito. Per cui c'è anche il rischio di finire in galera, sciolte le Camere e persa l'immunità parlamentare. Dall'altra parte, c'è la possibilità di patteggiare subito e chi se ne frega. Del resto nessuna delle due strade ti dà la possibilità di tornare in Parlamento». Insomma, per gli «inquisiti» l'unica consolazione sarebbe quella di scampare il carcere. Ieri lo ha detto lo stesso ministro della Giustizia, Conso, che si appresta a recepire le indicazioni di Di Pietro in un decreto legge. «Chi ha peccato - è il futuro che il ministro prevede per chi accetta l'idea del patteggiamento deve pagare presto e restituendo il maltolto, dovrà uscire dalla vita politica e dalle imprese, soprattutto avere una condanna che pende su di lui come un capestro». E proprio per questo, l'uscita di Di Pietro, non ha provocato nessun respiro di sollievo tra i politici investiti dal ven- to di Tangentopoli, ma solo il tormento di chi si appresta a fare la scelta più importante della propria vita. Gli altri, cioè i «fortunati» che non sono caduti nella rete della giustizia, dissertano e confrontano opinioni anche divergenti. Il segretario della de Mino Martinazzoli, ad esempio, promuove le tesi del giudice milanese: per lui, infatti, quella proposta potrebbe rivelarsi un valido aiuto per liberarsi degli «inquisiti» del partito, che, in questo modo, potrebbero lasciare la politica con meno problemi, senza finire in cella. «L'ipotesi di Di Pietro dice il segretario de - è interessante, è un tentativo da fare». Di parere diverso, invece, è il socialista Labriola: «L'unica via d'uscita da Tangentopoli - spiega - sono le sentenze. Qualunque altra cosa potrebbe significare un iniquo trattamento sia di quelli che sono accusati, sia di quelli che ancora non lo sono». Loro, invece, i «diretti interessati» al provvedimento fanno le loro valutazioni, calcolano le convenienze e i rischi. «Sì - ammette Claudio Signorile, socialista con qualche avviso di garanzia sulle spalle - tutti cominciano a farsi i conti. E, secondo me, alla fine qualcuno accetterà l'idea di andare a "patteggiare" con il giudice, accettando tutto quello che ne consegue». Non tutti, però, la pensano così. Qualcuno punta i piedi e si prepara a fare una lunga resistenza. «Secondo me - è l'opinione dell'ex ministro remo Gaspari, anche lui da qualche mese membro del circolo degli "avvisati" - i giudici si sono fatti i conti e hanno capito che per loro sarà molto difficile fare i processi. Ad esempio, per loro è molto difficile provare un reato come la concussione, e lo sanno bene. Per cui usano con noi la "sirena" del patteggiamento, nella speranza di avere subito un'am¬ missione di colpa e nuove prove a carico di altri. Ma io che sono innocente, non ci sto e voglio una sentenza secondo l'iter ordinario». Altri, come l'ex ministro delle Poste, Oscar Mammì, dicono di «no» perché non gli conviene. «Io - dice - una simile proposta non l'accetto. Quando i giudici si degneranno di chiamarmi, io dirò loro quello che ho fatto: qualcuno mi si è presentato dicendomi che era disposto ad aiutare il partito e io l'ho mandato al pri. Possono accusarmi di concorso nella violazione della legge sul finanziamento dei partiti e a quel punto vedremo». E gli altri? I «nomi» grossi finiti in una delle ragnatele di Tangentopoli? Loro stanno zitti o, al massimo, mettono l'accento sul fatto che anche i giudici ormai si sono convinti che bisogna trovare una soluzione. Come il solito Arnaldo Forlani, il quale pur accettando la filosofia della proposta Di Pietro, spiega: «La cosa migliore sarebbe una legge che guardi avanti. Dov'è finita quella proposta approvata in commissione al Senato? Perché si è arenata?». Augusto Minzolini