Biennale-zapping fra Moana e Jùnger

Statue iper-realistiche e altre illusioni in Laguna: domenica l'inaugurazione Statue iper-realistiche e altre illusioni in Laguna: domenica l'inaugurazione Biennale-zapping fra Moana e Jùnger PVENEZIA ROPRIO come nella caricatura di Novello, la moglie del vecchio critico che si domanda amletica, per non far sfigurare il marito, se l'estintore nella sala d'esposizione sia un'opera d'avanguardia oppure no. Quell'elegantissimo levriero pezzato, portato solo sulla laguna, come un dettaglio di Tiepolo, sarà già Biennale - si domanda qualcuno spasmodicamente - oppure semplicemente un cane privilegiato, che fa la sua passeggiata veneziana, col gondonere-filippino? Siamo nel pieno del «vernissage» per la Biennale che s'inaugura domenica. Così, quei torniti carpentieri in hot pants macchiati così giusti, saranno operai veri che stanno ultimando un padiglione, oppure stanno piazzati ad arte lì, per fare performance? Certo c'è da cascare nelle trappole se Franco Vaccari fa della sua opera Tempo Reale (Bar Code) un vero caffeuccio in penombra, con spaccio fumante di espressi distribuiti gratis, fra tavolini in penombra e lampioncini rossi da night molto Lilì Marlene. E le signore della critica che senza approfondire troppo se stiano diventando anche loro opere d'arte oppure no, gradiscono alquanto togliendosi le scarpe, e stravaccandosi finalmente felici. Perché la corvée è davvero massacrante, ore e ore di coda sotto il sole, per filtrare entro le forche caudine di un pertugio da fiaba, miracolo se trovi i macignosi cataloghi, e te li devi poi spasseggiare appresso, Sisifo infelice. Si vaga, smarriti, come emigranti in una stazione che ha rinnegato direzioni e fermate, con le valigie colme di carte e la voglia frustrata di capire. Il bambino e gli zuccherini Certo, s'intuisce, il curatore, Signorino Grandi Numeri come qualcuno ha già ribattezzato Achille Bonito Oliva, ha voluto di tutto, e ancora di più: un vero suk dove ogni cosa è benaccetta, purché transiti (trans, mi raccomando) via dalle tele dipinte: qualcosa che tracimi, debordi, rompa le regole educate dell'arte camme ilfaut. Piuttosto, il gioco, la stravaganza. In omaggio più o meno dichiarato alla divinità avanguardistica del Ludico. Dal pur divertente flipper poetico dell'italianissimo Xarro e Corrado Costa, con il paesaggio cangiante di versi combinabili all'infinito, al contenitore di Gilardi, dove ficchi dentro le manine e tocchi un coso misterioso, reso dolciastro dalle ditate dei predecessori. Ma perché, allora, lo scapaccione al povero bambino, che vorrebbe - coerentemente - leccare il mosaico di zuccherini autentici di Mondino? Resiste, paradossalmente, quest'aura dell'opera intoccabile: sirenati dall'illuminismo, non pochi bambini sostano incantati di fronte alle straordinarie sculture iperrealistiche in bronzo di Seward Johnson, sedute su una panchina davanti alla fondazione Querini Stampalia. Hanno terrore di toccarlo, come se l'arte potesse dare la scossa. Dà un poco di tristezza, invece, quest'atmosfera satura di déjà dato di mille volte incontrato. Bisogno assoluto e scoperto e ormai miserello di épater a tutti i costi, e per di più una borghesia diligente, che sta là a farsi abbindolare. Come la vecchia aristocratica alla prima del Saore du Printemps che saltò sulla poltrona con l'ombrello ed urlava: «Signora nessuno mi aveva preso in giro così». E qui devi pure urlare evviva, se finalmente anche la Bulgaria ha scoperto l'arte povera, e fa scendere una corda da campanaro giù dal soffitto. Viva il progresso! Ed è un miracolo, se almeno l'artista ha un'ideuzza divertente, se il giochino da prestigiatore funziona. Tutti così a divertirsi da Benetton, con la grande stanza tappezzata da sessi, diligentemente fotografati da Oliviero Toscani. Una specie di variazione musicale minimalista, ben poco scandalosa; e modularmente ripetuta, come una giaculatoria anatomica. Soltanto qualche femminista s'arrabbia, perché in questo giochino metrico alternato di gadget maschili e femrninili (dattili e spondei un po' come con la figurina; calo, non calo, calo) finisce che il monile femminile risulta al confronto del maschio un poco sguernito. Una tendenza fallica E poi non c'è dubbio: qui e là, per le sale, torna ad alzare il capino una tendenza fallica leggermente insultante. Ma anche Toscani s'arrabbia, se qualcuno gli ricorda che qualche sala più in là Gorgoni espone un'opera molto simile, però degli Anni 70, una sorta di tavola anatomica alla Linneo di fotografati cespuglietti pubici femminili: si adonta, perché lui, dice, non ha voluto fare arte ma pubblicità, e mostra con orgoglio il suo damier scandaloso appena uscito su Liberation. L'arte? e che mai? Non offendiamo. Il corpo è molto più importante. Così, peggio per gli artisti, se per esempio il pubblico è assai più attratto dalla giacca leopardata post-craxiana di Antonio Recalcati (e scarpe di coccodrillo) che non dalle sue magrittiane sculture della Foresta morta. E canta pure, a squarciagola, non sai se perché felice, oppure ceduto anche lui alle performance. Divino invece il coreano Nam June Paik (indubbiamente uno dei più convincenti, con i suoi uornini-palombaro dalla pancia di televisione, che bombardano di immagini) il quale sembra un ubriacone uscito da un film di Ozu, gonfio di sake, la camicia slabbrata giù dai pantaloni, e spiega le sue funebri opere, quasi fosse un cicerone nei film di Peppino de Filippo: così ti sincera che l'igloo in cui sei penetrato è proprio «vero mongolo», quasi dovesse piazzarlo all'istante. Tutt'intorno, un tragico massacro di Budda decapitati. Miseria e nobiltà: il teatro ridotto ad angolino, un tinello con tre televisioni dove Kantor e Bob Wilson biascicano parole che nessuno sta ad ascoltare. Molto più attratti da Moana Pozzi che si crede Andy Warhol e fotografa tutti, e con la sua faccia improvvisamente sgonfiata come una gomma, sembra una streghina maliziosa di Carol Rama (una degli artisti giustamente più apprezzati). Uno zapping disordinato e feroce. Qualcuno crede ancora alla leggenda metropolitana che il quasi centenario Jùnger sbarcherà in questo bailamme. Nell'euforia del trionfalismo da Biennale si legge che Jùnger lo avrebbe introdotto in Italia Cacciari. *j si immagina bambino, i pantaloni alla marinaretto, che stampa in casa Meduse clandestine, o che al valico di Chiasso tenta di far proditoriamente passare gerle colme di Scogliere di marmo. Si ha voglia di fuggire: e ci si congeda con lo straziante, meraviglioso flash del Muro del pianto di Fabio Mauri, splendida parete formata di vecchie, vere, usate valigie accatastate. Una Louise Nevelson del viaggio, della diaspora ebraica, dell'esilio dall'arte. Marco Vallora Arriverà davvero il grande scrittore tedesco? Qualcuno ci crede ancora, ma è una leggenda metropolitana La pornostar come Warhoh va in giro e fotografa tutti a Lo scheletro del grande cavallo che emerge dalla laguna per annunciare la Biennale e il marchio della A fianco «Waiting», una statua di J. Seward Johnson In alto due profili di gesso di Giulio Paolini

Luoghi citati: Bar Code, Bulgaria, Novello