Ma non è questione di buone maniere di Lietta Tornabuoni
r PERSONE Ma non è questione di buone maniere DESSO sono in tanti a dar consigli di buone maniere a Bossi (già soprannominato Boxi) e agli altri leader della Lega vincitrice. I premurosi consigli suonano, più o meno, così: sinora avete esagerato, vi siete abbandonati a turpiloquio, volgarità, minacce verbali armate (Kalashnikov, bombe, pistola, sedie spaccate in testa), fanfaronate violente, demagogia rozza, insulti, contraddizioni; ora che avete vinto, per gestire la vittoria e le città in cui siete al primo posto dovete cambiare stile, imparare la misura e la pacatezza democratiche, smettere d'alzare la voce, mostrarvi più composti e affidabili, insomma riciclarvi. Ma non è questione di buone maniere. I premurosi consiglieri sembrano supporre che la Lega abbia vinto nonostante il linguaggio violento e le posizioni incoerenti dei suoi leader: invece ha vinto anche a causa di quelli, anche perché si è espressa in quel modo. Non che abbia parlato con chiarezza, figuriamoci: programmi e comportamenti leghisti risultano esemplari quanto a fumosità, genericità, irrazionalità, inconsistenza. Invece, la Lega ha adottato, con la naturalezza di chi vive tra gli altri e con successo, il tipo di comunicazione più contemporaneo, il linguaggio più corrente, j | le maniere^pjù; comuni bell'espressione collettiva: quelli che («l'importante è esagerare», cantava Jannacci) già dominavano nelle trasmissioni televisive, nella chiacchiera di massa, nel cinema comico o nella satira, e anche nei discorsi in aula delle scolaresche, anche nei discorsi non pubblici dei leader d'altre formazioni politiche. Se esiste un elemento su cui riflettere, sarà magari la ragione per cui in Italia la comunicazione più popolare ed efficace abbia assunto questo stile, e non la necessità per i leghisti d'imparare a parlare pulito in pubblico. Non sono del resto né il turpiloquio, né l'estremismo verbale puerile e demagogico né il «fare la fac^^ia^feroce», le caratteristi- cistc«ussdF«cnlcastscnrcletgnmmlcdqspAEzridlmt che leghiste che possono ispirare disgusto. Sono altre cose. A esempio l'uso che Bossi fa dei termini «statalismo» e «statalista», un uso tale da indurre l'ascoltatore a chiedersi se sappia di cosa sta parlando. A esempio l'uso che Formentini fa della parola «piagnoni» («Milano è una città che non ama i piagnoni»): come se la protesta o la critica non fossero esercizio battagliero di chi non accetta il peggio, ma lagna sterile e tediosa degli inerti; come se disoccupati, schiacciati dal fisco, extracomunitari o senzatetto non avessero ragioni di rammaricarsi della propria condizione ma fossero dei lamentosi rompiscatole. A esempio, il virilismo genitale che pervade il linguaggio leghista: come se l'energia, l'onore e la forza maschile risiedessero in mezzo alle gambe. Ad allarmare sono cose simili, che evocano il linguaggio del fascismo ai suoi inizi: o quel tanto di subcultura fascistoide presente da sempre nella società italiana. APPLAUSI Era inevitabile, la sentenza che a Savona ha dichiarato non punibile, perché incapace in quel momento d'intendere e di volere, Jolanda Mozzone che ammazzò nel sonno, a martellate in testa, il figlio tossicomane: soltanto la follia può spingere a una tale barbarie contro natura, come soltanto la follia può indurre a massacrare ferocemente i genitori alla maniera di Pietro Maso. Ma le lettere amichevoli o ammirate, le manifestazioni di solidarietà, gli applausi in aula indirizzati tanto alla madre assassina del figlio quanto al figlio assassino dei genitori: quelli sì, che mettono davvero paura. Lietta Tornabuoni ani |
Persone citate: Bossi, Formentini, Jannacci, Jolanda Mozzone, Pietro Maso
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