Così ci frusta Lavìa con il «suo» Alfieri di Masolino D'amico
A Roma una stringata edizione di «Oreste» A Roma una stringata edizione di «Oreste» Così ci frusta Lavìa con il «suo» Alfieri ROMA. Suppongo che il nostro teatro debba affrontare, ogni tanto, Vittorio Alfieri, per la stessa ragione per cui si scala il Cervino, ossia «perché è là». Lo scomodo monumento si erge a mo' di ponte fra il Settecento, nel quale la nostra voce tragica più alta è quella del forse irrecuperabile Metastasio, e l'età moderna, in cui dopo il sogno romantico, che per noi prese corpo soprattutto nell'opera lirica, la tragedia, come argomentò Georges Steiner in un saggio non dimenticato, non ha più possibilità di esistenza. Dico scomodo, perché l'Alfieri del genio aveva quasi tutto: indipendenza, originalità, audacia, natali aristocratici (altra condizione per essere innovatori letterari nel nostro Paese), curiosità, cultura, senso della giustizia; magli mancavano due attributi senza i quali nell'età moderna si gioca in serie B. Il primo è la lingua: nel senso che la lingua che si forgiò, e che senza dubbio svolse allora una ragguardevole funzione di rottura nei confronti delle aspirazioni a grazia e urbanità del secolo dei lumi, oggi, farcita com'è di «fiate» e di «non calmi» ( = non m'importa), ossia di espressioni che nei rapporti normali nessuno adoperò mai, appare insopportabilmente vecchia, tronfia e retorica, e sorte l'effetto diametralmente opposto a quello provocatorio per cui nacque. Il secondo attributo è l'ironia, senza la quale l'età che ha conosciuto Hitler non può più guardare in faccia il Male. Kafka, Beckett, Joyce, Pinter, Brecht, Primo Levi, nominatemi voi un grande moderno privo di umorismo; e naturalmente anche nel passato noi cerchiamo questa nota, trovandola sommamente in Shakespeare (e Racine? Ma l'eloquenza di Racine tocca il sublime, l'assoluto). Come deve dunque fare il regista che si ponga il compito di rendere l'Astigiano almeno un po' nostro contemporaneo? Nell'«0reste» del Teatro di Roma, all'Argentina fino al 15 (è la seconda di due parti e sarà replicata la stagione prossima con la prima, «Agamennone», che ancora non c'è) Gabriele Lavia punta tutto sul ritmo incalzante, a tratti addirittura vorticoso; l'idea dev'essere quella di aggredire lo spettatore anche con immagini e suoni, cercando di stordirlo e di rimandarlo a casa prima che si sia ripreso; un po' potati e saldati senza intervalli, i cinque atti durano infatti solo 85', una scudisciata. Per la reggia degli Atridi Arnaldo Pomodoro ha creato una specie di vasto antro scuro, come di lava rappresa, nella cui alta parete metallica si intravedono bassorilievi con scudi e altre forme più misteriose; unica nota di colore, un cuneo d'oro che si sporge a mo' di prora verso la platea, ed è la tomba di Agamennone. Il piano, che è alto e inclinato, è pieno di buche, che il palazzo di Argo è sotterraneo, e i suoi abitanti sbucano qua e là come da trincee. Di Pomodoro sono anche i costumi. Egisto (Massimo Foschi) - sempre seguito da dieci opliti muti in armature medievaleggianti di cuoio; l'unica azione di costoro è puntare tutti insieme le lance contro chiunque sembri contraddire il loro re, e nulla ci prepara al loro voltafaccia finale - è in corazza con elmo a spunzoni, come Fabrizi nella «Corona di ferro»; Elettra (Monica Guerritore) è in lungo con una specie di cappelli¬ no pieghettato che fa coroncina; Clitennestra (Rossella Falk) ha un lungo sciamano plissé di un bellissimo turchino; Oreste e Pilade (Lavia e Edoardo Siravo) sono in cappotti di nappa lunghi fino a terra, il primo, sotto, a torso nudo. Borborigmi ctonii e pulsazioni rendono minacciose le musiche di Giacomo Manzoni, che cominciano 5' prima dell'alzata del nero sipario. Si fa, insomma, sul serio, sfiorando coraggiosamente il ridicolo, proprio come l'Alfieri con i suoi personaggi le cui passioni sono così devastanti, da farli comportare da idioti, vedi il naufragio del piano di Oreste e Pilade, che appena ammessi davanti all'usurpatore si tradiscono finendo in ceppi, salvati solo dalla miracolosa rivolta di cui sopra (Oreste poi uccide anche la madre senza accorgersene): l'odio ai tiranni dell'Alfieri era cieco e non prevedeva nessuna strategia. Gli attori non tradiscono il progetto registico, e recitano senza incertezze, Lavia stesso risultando il più efficace quanto a intensità, e la Falk forse la più perplessa, privata com'è di quella punta di malizia su cui è abituata a contare. Discretamente partecipe, la sala. Masolino d'Amico Gabriele Lavia e Monica Guerritore in «Oreste» [FOTO TOMMASO LEPERA]
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