Insulti gestacci e doppi sensi i politici non amano il bon ton

Insulti, gestacci e I politici non Insulti, gestacci e I politici non doppi sensi il bon fon GALATEO A PALAZZO Tra corna e parolacce PROMA C-VERO Montanelli, malgrado il solleone gli è pure venuta «la pelle d'oca». A vedere Bossi in trionfo, l'aria scarmigliata, la cravatta strapazzata, l'eloquio truculento, qualcosa deve avergli fatto maledire il momento in cui domenica scorsa sulla scheda elettorale ha simbolicamente tracciato, turandosi ancora una volta il naso, una crocetta sul nome di Marco Formentini. Sapevamo che «l'habitat della Lega è l'osteria», ha scritto ieri sul Giornale, ma adesso Alberto da Giussano «frequenta anche il salotto buono». Che si dia insomma una vigorosa ripulita, il leader del Carroccio. Vada a lezione di bon ton. Impari Tabe del galateo. Altrimenti l'esigente borghesia meneghina finirà per voltargli le spalle, scacciandolo dall'empireo del 40 per cento e riconsegnandolo agli umori grossolani del folklore popolaresco. Ma sì che lo sapeva, Montanelli, che in gioventù Umberto Bossi non si è dirozzato alla ferrea disciplina di Oxford. E tanto era consapevole che il gran lumbard non fosse propriamente «un fine dicitore» pronto a esercitarsi nel baciamano che non più di un anno fa è stato lo stesso direttore del Giornale a insinuare da par suo che Bossi non avesse giornaliere consuetudini con l'acqua e sapone. Il «nuovo», Montanelli lo vedeva piuttosto stampato sul volto lindo e garbato di Mariotto Segni: altro stile, altra scuola, altra dimestichezza con le buone maniere e la lingua italiana. Poi è arrivato il terremoto ad accelerare il crollo dell'ancien regime, e insieme gli ululati della telepiazza, lo sgarbismo quotidiano, il cortile di Funari, gli sganassoni in diretta, l'invettiva che si trasforma in abitudine. Le regole della buona creanza vanno in soffitta. E la «rivoluzione di cachemire», come l'ha benevolmente definita l'Economist, decide di indossare abiti più grezzi. Doveva essere il nostro avvici¬ namento all'America: il sorriso rassicurante di Clinton, i candidati che si abbeverano ai consigli degli esperti d'immagine per non perdere una battuta e un'inquadratura. E poi la civiltà «uninominale» del confronto duro ma cortese. E invece cosa è accaduto? Con l'ascesa tumultuosa della Lega, è tutto un altro cambiamento che si profila lasciando interdetto Montanelli. Dove non c'è solo la chincaglieria da gadget promozionale con tanto di profumo «Dur», ma anche la mitragliata di pernacchie in cui un giorno Bossi si esibì in pieno Tran¬ satlantico contro Sandro Fontana, il proverbiale gesto dell'ombrello nell'emiciclo di Palazzo Madama del senatore Speroni con il vicepresidente Lama che gridava «questa non è la Suburra», il cappio di Orsenigo, l'ossessivo rifarsi a metafore esplosive piene di Kalashnikov, bombe e rivoltelle. Non che il vecchio regime assomigliasse a un salotto dove tutti parlano sottovoce in uno scintillio di delicati motti di spirito. Tra un «cacchiarola» di Gava e un «ciccia» del presidente Cossiga, erompeva nei suoi tonanti epiteti l'allora po¬ tentissimo Bettino Craxi. Che ne aveva per tutti. Per i giornalisti «sto proprio per rompermi i coglioni». Per De Mita: «Discorsi da ubriachi». Contro il mondo: «Le bocce girano». Del resto non era il solo a illeggiadrire il lessico dell'ingiuria nella Prima Repubblica. E se la palma del lazzo e della battutaccia scurrile spetta pur sempre a Bossi che un giorno minaccio Ócchetto che glielo avrebbe «messo in quel posto», nella guerra di tutti contro tutti dell'Italia proporzionale, la corsa all'invettiva pesante e all'in¬ sulto salace, l'arte che gli studiosi di retorica definiscono vituperalo, non ha conosciuto soste. «Analfabeta di ritorno», «pagliaccio», «pataccaro», «zombi coi baffi». Tutte formule targate Cossiga (che un giorno lacerò ogni etichetta presidenziale esclamando «mi incazzo» per un titolo dell'Unita). Ma come dimenticare l'evocazione dell'«uccello padulo che vola all'altezza» della rima da parte di Adolfo Sarti, oppure il «dev'essere un effetto del caldo» detto da De Mita a commento del nemico Ora- xi, il «paranoide» rivolto dal mite Martinazzoli a Martelli, il «ladro e codardo» indirizzato da Martelli a La Malfa, il desueto «pingue» gridato da Fabbri ad Andreatta (e adesso i due decidono assieme se mandare le nostre truppe in Bosnia), il «bucaniere» di Andreatta a Craxi. Ma anche «le frescacce di breve durata» con cui Andreotti perse i nervi, il «faccia da pugile suonato» modulato da Gianni De Michelis all'indirizzo di De Mita, il «pirla» urlato dal socialista Buffoni al verde Corleone. Un crescendo di frizzi, una tem¬ pesta di boccacce e gesti osceni. Che ha coinvolto tutti: il Palazzo ma anche i professionisti dell'anti Palazzo. Come la vignettista Elle Kappa che all'indomani della batosta craxiana ai referendum non ha trovato di meglio che questo: «Ventisette milioni di elettori hanno mandato Craxi a fare in culo». Ogni freno inibitorio cominciò a venir meno. Persino Occhetto iniziò a infarcire i suoi discorsi di «pernacchie» e «stitichezze». Persino Bruno Trentin, uomo di anglosassone compostezza, esasperato dai bulloni che gli piovevano in testa si mise ad agitare le dita della mano nel gesto che ha reso celebre Giovanni Leone. Craxi, per bon essere da meno, decise di imitarlo indirizzando un bel paio di corna al suo ex pupillo Martelli. Era l'inizio della fine. Ma non sapevano che la Lega su cui si dispera Montanelli, ce l'aveva molto, ma molto più duro. Pierluigi Baffi la Da sinistra Ciriaco De Mita e Bruno Trentini i A destra: il leghista Leoni Osernigo , con il cappio alla Camera Montanelli a Bossi «Se non sai stare nel salotto buono ti cacceranno»

Luoghi citati: America, Bosnia, Giussano, Italia, Orsenigo, Oxford, Palazzo