DON RODRIGO DOMINA. I PROMESSI SPOSI DI ULIVI

DON RODRIGO DOMINA. I PROMESSI SPOSI DI ULIVI DON RODRIGO DOMINA. I PROMESSI SPOSI DI ULIVI IL Novecento è tempo di riscritture per la consapevolezza che, forse, tutto è stato inventato, e allora non rimane che ridire il già detto in una forma e in una prospettiva diversa, magari in falsetto, come parodia non priva, dentro, di un'ombra di disperazione per essere così tardi arrivati a scrivere. Apparentemente, anche Tempesta di marzo di Ferruccio Ulivi appartiene al genere delle riscritture: e qui si tratta dei Promessi Sposi, con la cornice dei pensieri, delle vicende, dei dubbi, delle ansie di quel personaggio Manzoni al quale Ulivi già aveva, in passato, dedicato un racconto (in E le ceneri al vento) e un romanzo incentrato sui rapporti con la madre (Lo straniera). In un marzo gelido ancora, il Manzoni si trova fra le mani lo scartafaccio dell'anonimo secentista che contiene la storia dei «promessi sposi»: e sulla scorta di quella narrazione così come essa veramente è, e non come, poi, il Manzoni la adatta nel suo romanzo, Ulivi riferisce sui personaggi e sulle loro autentiche storie e sentimenti e situazioni e sorti. L'altro romanzo rispetto a quello manzoniano ha in sé un rovello e una disperazione, un senso del nulla, una problematicità e un'ambiguità di stati d'animo, d'impulsi, di volontà, che la chiarezza razionalista e la fede cristiana del Manzoni hanno corretto, quando non censurato e cancellato. Così, don Rodrigo, e non i «promessi», è la figura centrale della vicenda, quella più complessa e sfaccettata. E' rozzo, volgare, pieno di rancori e di furori per la sua condizione di nobile costretto a vivere in provincia con scarso denaro, perché il padre l'ha rovinato, si dedica a sedurre contadine e operaie, ma l'incontro casuale con Lucia sommuove in lui qualcosa di profondo: un sentimento d'attrazione misteriosa, di desiderio di qualcosa d'altro dalle solite avventure. Di qui il tentativo di rapimento, poi l'altro rapimento affidato alla potenza dell'Innominato: ma quest'ultimo, ormai, non vuole essere altro che il modo per riatti- La conclusione è cupa, senza riscatto: don Rodrigo eredita i beni del conte Attilio morto di peste, si precipita a Milano per mettere a posto i suoi affari, ritrovare Lucia e chiederle di sposarlo, ma muore di peste; dell'epidemia muore anche Lucia prima di essere entrata in convento, in seguito al voto promesso nella cella dell'Innominato; Renzo ritorna invano a Milano, perché qui viene a sapere della morte di Lucia, e ha in sogno la visione di una giovane donna che allatta seminuda un bambino, e un serpe sembra minacciarla, sotto un cielo tempestoso, proprio come è il quadro del Giorgione; il cardinale muore di vecchiaia e di peste, senza essersi liberato dai suoi dubbi. Nel confronto finale fra il Manzoni e l'anonimo che lo scrittore ha evocato davanti a sé, si commisura l'abisso che c'è fra la storia «vera» del secolo XVII e la rielaborazione consolatoria che il Manzoni ne ha fatto. E' il problema della responsabilità della letteratura, ma è anche il confronto fra la cupa, dolente, disperata vicenda piena di ango¬ Ferruccio Ulivi pubblica daPienvne «Tempesta di marzo» rarsela vicino e convincerla che la ama. D'altra parte, anche Lucia è attirata da don Rodrigo, di cui avverte subito la passione e la disperazione che lo rodono; ma sa, nella sua saggezza morale, che è un sentimento impossibile. Il matrimonio con Renzo dovrebbe essere il modo di sfuggire definitivamente non tanto a don Rodrigo, quanto a se stessa. Ma tutto fallisce; e Lucia stessa, evitando il matrimonio, dopo la fuga dal paese, non fa che riservarsi una possibilità alternativa di vita, mentre Renzo scompare a Bergamo. scia, morte, rovello, bestemmia, della Milano del Seicento e il tentativo del Manzoni di dare un senso agli accadimenti, di mettervi dentro un poco di giustizia e di consolazione, di farvi risplendere, sia pure in modo problematico, la provvidenza divina e anche la misura, la ragione, nella chiarezza ritrovata della fede dopo la negazione settecentesca e rivoluzionaria. Non c'è spiegazione, né si può dare un giudizio, se non nella vita e nell'esempio che in essa il Manzoni, con tutte le sue nevrosi, può dare di tenerezza e di dolcezza. Rimane, in fondo, la domanda senza risposta sul significato di quelle vite come di ogni vita. E' la conclusione che Ulivi ci lascia, dopo una narrazione di mirabile limpidezza, di profondità straordinaria di analisi d'animo, di uno stile di assoluta perfezione. Giorgio Bèrberi Squarotti Ferruccio Ulivi Tempesta di marzo Piemme pp. 191, L 28.000

Luoghi citati: Bergamo, Don, Milano