Luzzati, il cantiere fatato

«Non esiste più un'avanguardia. Cartelloni noiosi. La gente accetta e non sceglie» Le scenografie esposte da oggi al Beaubourg di Parigi Luzzati, il cantiere fatato «Il pubblico è il killer dei teatri» GENOVA DAL NOSTRO INVIATO Emanuele Luzzati va a Parigi con una mostra documentaria della sua opera scenografica. Da oggi al 30 agosto una grande sala del Beaubourg sarà riservata alle sue creazioni. «Emanuele Luzzati scénographe»: con questo titolo la Francia e il Teatro d'Europa rendono omaggio alla favolosità, alla delicatezza, all'esuberanza di un creatore inconfondibile che ha esplorato ogni aspetto dell'arte figurativa e plastica. E' il primo italiano a cui il Beaubourg riserva questo genere di ospitalità, e Luzzati ne va fiero. Ma come può andarne fiero lui, con un sorriso enigmatico che gli fa stringere gli occhi a fessura: la reazione di un gatto al sole. Se l'è preparata con affetto, questa mostra. Nello studio della grande casa di Genova, odorosa di cera e arredata con lontano gusto déco, ha riordinato a lungo i materiali da spedire a Parigi. Bisognava vederlo. Sembrava di entrare in un deposito delle meraviglie: cieli blu cobalto, colonnati, case accatastate a piramide, donnine con i pomelli rossi e le ampie gonne sgargianti. E poi i cavalli monumentali di Ettore Fieramosca, gli straccioni del Ruzante, le immense scalinate della Semiramide: tutto sistemato in grandi prismi neri protetti da una lastra di vetro. In quelle case trasparenti trovava posto un intero spettacolo, dalla prima scena all'ultima: un miracolo di composizione. «Desidero dare un'idea della creazione nel suo complesso», aveva detto Luzzati. Ora lo studio è melanconicamente sgombro. Nella simmetria delle cassettiere, nel lindore dei piani di lavoro, ha perso l'atmosfera del cantiere incantato. Luzzati elenca le opere spedite a Parigi: c'è Lea Lebowitz, «il mio primo spettacolo importante; lo feci con Alessandro Fersen nel '47, appena rientrato da Losanna dove mi ero rifugiato a causa delle leggi razziali. E il mio ultimo lavoro, L'amor rende sagaci di Cimarosa, rappresentato al Comunale di Bologna». E tra l'uno e l'altro? «Quel che ho potuto trovare. E' difficile ottenere i propri lavori, che appartengono ai teatri: le spese di assicurazione sono proibitive. E poi non so dove siano finiti. E' vero, nascono per un teatro, ma poi me li ritrovo da un'altra parte, magari smembrati e irriconoscibili. L'anno scorso ho visto a Martina Franca il Matrimono segreto che avevo fatto nell'81. Non succede sempre, ma quando succede è sgradevole». Non esistono difese? «E' una pirateria legalizzata, viene da un vecchio costume che non è mai stato colpito. L'unica difesa è mettere tutto nel contratto, come fanno gli scenografi più furbi di me». Ma lei sembra amare i rischi: lavora per tutti, per i grandi teatri e per i piccoli. «Il problema è divertirsi. Per me un teatro non è più importante di un altro. L'unica differenza è nei quattrini. Lavorare per un teatro grande mi permette di lavorare gratis per un teatro piccolo. Il teatro è teatro dappertutto. E pensare che una volta non mi interessava». Vuol dire che non ha seguito una vocazione? «Volevo fare l'illustratore. Subito dopo la guerra sembrava persino facile riuscirci. Ma chissà perché ho potuto fare la prima illustrazione dopo il mio primo cartone animato. Devo ringraziare il teatro». E nel teatro è sempre sta ■ to fedele a uno stile? «Ho avuto vari passaggi. Nel primo spettacolo con Fersen le scene erano di carta, i costumi dipinti col pennello. Il Peer Gynt di Gassman, che mi aprì le porte, era tutto dipinto. Scoprii l'oggetto quando fondai con Aldo Trionfo "La borsa di Arlecchino". Il Golem del Maggio fiorentino aveva un'imponente scena tutta di sedie. Ma andando avanti mi rendevo conto di avere un complesso: non riuscivo ad affrontare gli autori contemporanei. Credevo di non essere adatto, finché non ho scoperto Beckett e Ionesco. Ma il complesso continua con Pirandello: non so da che parte prenderlo, sono bloccato dal suo linguaggio. La stessa cosa mi succede con Puccini. Se poi faccio certe cose, il merito va ai registi». Trionfo, per esempio. Eravate quasi siamesi. «Conoscevo Trionfo dall'età di cinque anni. Facevamo ginnastica insieme. L'ho ritrovato a Losanna. Lui studiava Ingegneria, io frequentavo la Scuola d'arte applicata. A Losanna conobbi Fersen, era il marito della mia maestra. Fu lui a darmi lezioni di francese, fu lui a infiammarmi la testa col teatro. Lo coinvolsi immediatamente quando feci il mio primo spettacolo, Salomone e la regina di Saba. Trionfo, che scalpitava, disse: vengo anch'io. Avevamo molto in comune, ci intendevamo senza spiegarci, con lui tutto aveva una logica, anche se, all'inizio, sembrava non averla affatto. Era un creatore straordinario, si sarebbe adattato a fare spettacolo persino in questa stanza». Ma come mai registi e scenografi molto inventivi, lavorando in una struttura importante, diventano barocchi? «E' un'esigenza della struttura. Alla Scala, con l'oro che c'è intorno, la scena deve essere ricca. Ammiro i teatri che dicono: non ci sono soldi. Ho ammirato il Comunale di Bologna per L'amor rende sagaci. Sul contratto c'era scritto: la scena non deve costare più di 250 milioni. E' giusto. Bisogna avere dei limiti e rispettarli. In genere da noi si dice: è troppo caro. Poi si fa lo stesso». E si affonda nei debiti. «E già. Ma non perché le cose siano care. Il nostro è un teatro vagante. La vera spesa sono i trasporti. Nessuno ha magazzini, nessuno conserva niente. Alla Tosse siamo gli unici a ri¬ ciclare tutto». Come vive questo momento di crisi del teatro? «In questo periodo sono più vicino alla lirica, mi sembra più viva. Pavarotti può essere fischiato, il mio Ballo in maschera a Vienna è stato fischiato, la gente discute. La prosa mi sembra piatta. L'abbonamento sta uccidendo tutto, la gente non sceglie più. Fino ad alcuni anni fa c'erano Carmelo Bene e Carlo Quartucci che agitavano le acque. Ora l'avanguardia non saprei dove trovarla e il teatro ufficiale è noiosissimo. Riesco a divertirmi alla Tosse perché giochiamo per il gusto di giocare». Chi è il grande nemico del teatro? «Alcuni dicono la tv. Ma non credo. Molti si abbonano al teatro proprio per uscire di casa. Semmai la tv li addormenta, gli appiattisce il gusto. Oggi c'è più pubblico di una volta, le sale sono piene, ma la gente non riceve niente e non dà niente. Sono tutti incanalati, omogeneizzati. E' il pubblico il vero nemico del teatro». Luzzati s'interrompe per rispondere al telefono. Un'aspirante scenografa gli chiede se può mostrargli i propri lavori. La risposta è affermativa. «Servirà a poco, è una carriera così difficile. Molti vogliono fare gli scenografi, ma confessano di non essere mai stati a teatro. Assurdo». Luzzati si muove per la stanza. Un Pulcinella esce da un corno di mucca appeso al muro. «Mi fa piacere questa mostra in Francia. Per me il teatro era la Francia. L'ho fatto dappertutto meno che lì. Chiudo un cerchio, saldo un conto con il mio immaginario». Esita. «Quanti cerchi si stanno chiudendo, quest'anno. Riprendo II turco in Italia a Losanna, nel teatro in cui sono stato spettatore da ragazzo. Quest'inverno l'Università di Genova mi ha conferito la laurea honoris causa in Architettura e miei volevano che facessi l'architetto. Si stanno chiudendo tutti i cerchi. Porterà male?». Osvaldo Guerrieri «Non esiste più un'avanguardia. Cartelloni noiosi. La gente accetta e non sceglie» Le scenografiLuzzat«Il pubbM Gassman e (sopra) Bene Nella foto in alto: lo scenografo Emanuele Luzzati. Qui accanto: un bozzetto dedicato a Cristoforo Colombo e alla scoperta dell'America Gassman e (sopra) Bene