«Sono un ebreo con il mal di Libia»

Parla Fellah, regista del grande pellegrinaggio Sono un ebreo con il mal di Libia» Parla Fellah, regista del grande pellegrinaggio DA TRIPOLI A ISRAELE TEL AVIV 1 AFFAELLO Fellah. Fellah t in arabo vuol dire contadino, Raffaello è per tutti un arcangelo speciale, quello che salva: «Perché mia madre, in quel maggio tripolino del 1935 quando io nacqui, era moribonda. Fu come se io, con la mia nascita, l'avessi salvata». Da allora, quando disserrò gli occhi veramente gialli come non se ne vedono in giro sulla allora trentottesima provincia dell'Impero, la Tripolitania, Raffaello Fellah non ha perso il vezzo del liberatore, del salvatore, del costruttore di pace. Così è proprio lui che ha contribuito alquanto, dal suo seggio di presidente dell'Associazione degli ebrei libici sparsi per il mondo, alla visita dei duecento pellegrini di Gheddafi, che fino alla loro traumatica uscita di mercoledì scorso, hanno inopinatamente calpestato il suolo israeliano. Israele, la Libia: due Paesi in guerra. Gheddafi, Rabin: due personaggi più lontani non si possono immaginare. Raffaello Fellah ha però sempre sognato con irruenza araba, testardaggine ebraica e diplomazia italiana (è stato ed è molto legato ad Andreotti) di curare la ferita della cacciata degli ebrei libici nel 1967. Passo passo ha costruito la sua visita personale al Rais libico sotto la sua tenda nel febbraio scorso. E poi, ha in gran parte organizzato la visita dei libici qui, in Israele. Per riassumere: nei giorni scorsi i pellegrini (di cui molti lanciavano troppo lunghe occhiate sul terreno nemico) hanno passato poco più di una giornata in preghiere, svillaneggiati dai palestinesi che si sono sentiti traditi; e invece benvenuti dalla comunità ebraica libica di qui, nostalgica come sanno essere gli arabi dei costumi di casa (cuscus, cultura dell'ospitalità, ispirazione comunque religiosa) e anche sensibili al pensiero che forse da casa, da Tripoli, potrebbe venir qualcosa indietro di tut- ti i patrimoni lasciati in mano a Gheddafi. Il miliardario libico Nimrodi è stato il principale sponsor economico della gita e ha promesso una prossima visita di Gheddafi. I governanti israeliani hanno fatto finta di niente, ma si capisce che qualcosa hanno sperato anche loro. «Nimrodi ha gettato uno stupido sasso nello stagno parlando di una prossima visita di Gheddafi. Forse lo ha fatto per placare le aspettative della nostra gente; e forse anche per sedare i sospetti eccessivi degli israeliani. Il deputato Yossy Beilin ha detto in pubblico, mentre ancora i libici passeggiavano per le strade di Gerusalemme, che il loro è un Paese di "appestati". Questo non si fa» si rammarica Raffaello Fellah spiegando il comportamento successivo degli ospiti, che d'un tratto, dallo scranno di una conferenza stampa hanno chiamato gli arabi alla liberazione di Gerusalemme dallo Stato sionista. «Beilin ha rotto le regole dell'ospitalità, e allora di conseguenza così hanno fatto anche loro. I libici inoltre, hanno attaccato insieme Arabia Saudita e Israele; e per capirli occorre anche dire che intanto i palestinesi li avevano attaccati, mentre per Gheddafi, isolato dal blocco delle sanzioni americane, non esiste più nessun'altra connessione col mondo arabo che non sia la causa palestinese. Tuttavia, nonostante tutto questo, un grande tabù è stato rotto». Fellah si illumina: «La Libia ha messo in imbarazzo persino l'Egitto che, nonostante il suo trattato di pace, non consente ai suoi cittadini di venire in Israele. A parte le intemperanze verbali, questo viaggio rimane alla storia come un viaggio di pace». Raffaello Fellah è un incrocio di paradossi storici: ebreo libico con cittadinanza italiana, amico d'Israele in visita cordiale da Gheddafi solo pochi mesi fa. Suo padre è stato ucciso in un pogrom arabo, i suoi beni sono ancora in mano dei libici. Italianizzante come tutti gli ebrei libici, si è beccato tuttavia sia le leggi razziali del '38, quando la Libia era ancora la provincia italiana di Italo Balbo, sia le persecuzioni del nuovo regime, da cui è fuggito solo nel 1967. Poi, sponsor Andreotti, ha iniziato un cammino di riparazione e di avvicinamento fino a ottenere la cittadinanza italiana; ha riconquistato terreno con il suo passato libico fino a sedere convivialmente nella tenda di Gheddafi a quattr'occhi col Terribile Rais; e così lo racconta: «Chi lo vede oggi da vicino vede un uomo completamente diverso da quelli che tutti quanti sono abituati a immaginare. Quieto, pacato, sicuro di sé. Niente a che fare col leader minaccioso e un po' pazzoide delle interviste televisive. E io le sue interviste non le ho mai mancate. Neppure una, in ventitré anni. Vivo ogni giorno con la radio di Tripoli accesa, e quindi insieme a lui. La mia visita fu preceduta da un incontro a Roma con Andreotti e con il ministro degli Esteri di Gheddafi, Omar Muntasser. Per anni solo Andreotti mi aveva dato retta, aiutando gli ebrei libici a ottenere la cittadinanza italiana, e sostenendoci nella parte legislativa che riguarda le riparazioni economiche. Materia per noi complicata, che passa attraverso una storia in cui sia gli arabi che gli italiani non hanno la coscienza pulita. Le leggi razziali ci imposero di non possedere beni oltre un limite molto ristretto e la rivoluzione libica del '70 nazionalizzando le nostre cose e confiscando quelle degli italiani ci ha espropriato definitivamente. Adesso però Gheddafi sembrerebbe convinto delle nostre ragioni... Dunque, negli Anni Settanta-Ottanta l'Italia era il Paese numero uno nel nuovo trend affaristico-petrolifico con la Libia. La Fiat, le grandi commissioni per le opere pubbliche... Nessuno ci dava retta. Gheddafi era forte. Io tuttavia cercavo di lavorare sodo per aiutare i profughi e per salvare il salvabile. Ho pagato dei prezzi: gli ebrei mi vedevano come una spia araba, gli arabi come un emissario del Mossad. Anni duri. Poi, dopo le sanzioni americane, l'apertura del tavolo delle trattative di pace in cui Gheddafi non gioca alcun ruolo, il Rais libico si è trovato isolato. Io intanto avevo costruito qualcosa, un grande congresso internazionale a New York nel 1987 e poi ancora a Roma nel '90 in cui gli ebrei libici esuli si sono contati, e sono tanti. E poi la storia degli ebrei di Libia commissionata a Renzo De Felice. Insomma, ho cercato di restare sotto i riflettori della nostra storia nazionale recente; Gheddafi mi ha visto, e mi ha invitato. Dopo avermi mandato a prendere con una macchina di Stato a Djerba (l'embargo non consente di atterrare in Libia) e dopo avermi fatto ospitare nel bell'albergo Meari, mi è venuto incontro sotto la sua tenda col barracano color sabbia, e col turbante. Un Gheddafi tutto nuovo, composto nella sicurezza del potere. Ha mandato via altri due personaggi che ci stavano vicini dicendo: "Voglio parlare a lungo col mio conterraneo". Si è detto preoccupato del fondamentalismo islamico, ha ripetuto che non crede nella preoccupazione occidentale per l'antisemitismo, e anche che non crede a soluzioni parziali per Israele. Insiste che Israele non si rende conto di essere circondata da più di un miliardo di musulmani». Fellah racconta poi che con Gheddafi ha parlato anche dell'indennizzo degli ebrei libici: «Ha aggiunto per la prima volta che se tornassimo saremmo ben accetti. Ma chi può immaginarsi che qualcuno di noi, con quello che abbiamo passato, voglia tornare? Alla fine comunque, abbiamo concordato che in luglio o agosto ci sarà un rivolu¬ zionario viaggio di riconciliazione a Tripoli degli ebrei libici, e vi parteciperà anche una delegazione di ebrei italiani, e persino americani e anche israeliani. Non ci crede? Questa è la promessa, su questo si misura la bontà dell'impegno di Gheddafi». Di fronte alle reazioni incredule dell'interlocutore, Raffaello Fellah ripete che crede fermamente alle promesse del Rais. E anche a quella di una conferenza del Trialogo, un'organizzazione che unisce musulmani cristiani ed ebrei. Dovrebbe tenersi quest'anno a Tripoli. Questo il Rais ha promesso: «Qui: e non sulle sciocchezze televisive, sulle intemperanze verbali, si misura la buona volontà di Gheddafi». Fellah è tutto vestito alla coloniale, in ampi e leggeri tessuti color caki. Non si può fare a meno di pensare che suo padre Mushi, uno dei più ricchi personaggi della Tripoli d'inizio secolo, confezionava burmus, selle, cappelli, per le truppe coloniali. Erano nove i fratelli Fellah che crescevano nella Tripoli «bella, geometrica, fiorita, pulitissima» che Fellah ancora ricorda. L'illusione italiana degli ebrei libici durò finché non furono espulsi dalle scuole ed espropriati; eppure la dolcezza della lingua appresa nelle scuole italiane, la gentilezza della nostra cultura è rimasta su di loro come una nostalgia che si è potuta placare, dopo la cacciata da Tripoli, perché si creasse una nuova nostalgia: «Eppoi, noi libici anche in Israele, ma un po' dappertutto, per quanto bravi, per quanto ricchi, per quanto colti, restiamo per gli altri sempre dei sefarditi dalla pelle un po' scura. Allora, se si capisce questo si può anche capire come il desiderio di comunicazione con i nostri connazionali, con la Libia, anche con Gheddafi resti comunque molto forte. Allora non mi chieda se ho paura di Gheddafi: io, ebreo libico, non ne ho». Fiamma Nirenstein Sono amico di Andreotti e Gheddafi Il Colonnello me lo ha assicurato Con noi vuole proprio riconciliarsi Due immagini dei pellegrini libici a Gerusalemme [FOTO ANSA-REUTER-EPA-AFP]