Antonello uno zoom nel dolore

Il Louvre festeggia l'acquisizione di un formidabile quadro del maestro di Messina Il Louvre festeggia l'acquisizione di un formidabile quadro del maestro di Messina Antonello, uno zoom nel dolore L'incredibile odissea del Cristo alla Colonna UPARIGI LTERIORE conferma che anche a partire da un solo, microscopico quadro - non più grande di un ambizioso catalogo - con molta intelligenza e senso dell'equilibrio didattico/spettacolare si può allestire una mostra memorabile; questo come motivo «patriottico» alle nostrane «grandi mostre», ridicolmente pretenziose, dai titoli gridati, che mantengono alla fin fine pochissimo. Certo, bisogna possedere un quadro formidabile come II Cristo alla, Colonna di Antonello, che disposto in posizione strategica, in fondo alla sala, così mingherlino di dimensioni ma insieme possente, fragoroso d'intensità, ti sequestra l'occhio e te lo inabissa con sensuale protervia centripeta. Un capolavoro ammaliante, «patetico e insieme straziante, bruciante sotto il ghiaccio della perfezione tecnica», come scrive Pierre Rosenberg, licenziando l'esemplare, misuratissimo catalogo curato da Dominique Thiébaut. La tavola è giunta al Louvre nel giugno 1992, dopo anni di peripezie ed un pedigree, da animale di lusso, lungo pagine e pagine: acquistata a Granada in Spagna da colui che sarebbe diventato sir Charles Robinson, conservatore delle opere della Regina e fondatore del Burlington Fine Art Club, l'opera è passata sotto lo sguardo distratto di varie lady che l'hanno via via ereditato, per finire invenduto ad un'asta di Christie's nel 1989, già attribuito ad Antonello; poi, depositato dal suo proprietario alla National Gallery, per ulteriore interessamento della Christie's è giunto felicemente al Louvre, affiancandosi all'altro capolavoro, il fiero ritratto di Condottiero. (Da Venturi e da Berenson ritenuto «troppo bello per essere di Antonello», assegnato ad Andrea Solario, il Cristo è tornato al messinese grazie al sensitivo entusiasmo di Longhi). Alla corte di Van Eyck Che vuol essere dunque questa mostra, chiamata con obbiettività (.{Dossier», se non un tentativo articolato di capire meglio questo capolavoro nevralgico di un delicato momento iconografico? Dissolta la leggenda vasariana di un Antonello nato a Messina in un ambito pittorico abbastanza gramo (risultando poco credibile anche l'invenzione che egli possa aver collaborato come «secondo» al meraviglioso, macabro affresco del Trionfo della morte), poi miracolosamente spedito nelle Fiandre, a rubare il segreto della pittura ad olio nell'atelier di Van Eyck, segreto che avrebbe «passato» a Firenze all'amico Domenico Veneziano, le cose non sono comunque divenute più chiare. Anche se un divertente quadro ottocentesco in mostra, di J.-F. Ducq, racconta questo «sbarco» di Antonello-Colombo nello studio «nuovo mondo» del fiammingo, quasi fosse un imperatore cui inchinarsi (Van Eyck se ne sta al cavalletto, ultimando una Madonna di cui trapela il disegno; inesattezza, perché è ancor dubbio dalle radiografie se egli dipingesse su una traccia disegnata) le date non perdonano: Van Eyck muore quando il siciliano aveva undici anni. Certo, a Napoli, dove è a bottega da Colantonio, Antonello ha modo di conoscere la pittura «ponentina»; anche perché la moda del momento è proprio quella fiamminga. I due potenti rivali, Renato d'Angiò e Alfonso d'Aragona, si combattono pure a colpi d'artista; l'uno proteggendo il misterioso Barthélémy d'Eyck, l'altro importando opere di Rogier van der Weyden. E il formidabile trittico Braque, di quest'ultimo, con la figura centrata del Cristo - l'aureola aranciata che spande un torpore di tramonto lagunare sull'intiera tavola, ed i sacri fumetti che fuoriuscendo sinuosi dai santi disegnano come una musica muta, fiorita intorno alle fisionomie - è illuminante per introdurci all'opera di Antonello. Che venuto in Venezia, a commerciare influen- ze col Giambellino, e a depositare quel ricchissimo gioiello della (ormai smembrata) Pala di San Cassiano, che il suo committente, programmaticamente, voleva fosse «una delle opere più eccellenti in Italia e anco fuori», oltre a produrre gonfaloni (perduti) per un pubblico più conservatore, si specializza in splendide opere di devozione privata. Misticismo e devozione Alla fine del Medioevo, con il moltiplicarsi delle più diverse correnti mistiche, non si contano gli esempi di Libri delie Ore e di tavolette riservate alle preghiere di taglio bizantino. Si tratta per lo più di piccole tavole ad alto contenuto mistico: Neri di Bicci, in Toscana, allestisce quasi un'industria di Madonne da camera. Abbandonando il ritratto di profilo, d'impianto rinascimental-pisanellesco (quasi la sagoma dì una medaglia) queste opere di devozione inquadrano il perso¬ naggio prescelto, per lo più Gesù Cristo, di «thoracicula», cioè a mezzo busto. Una figura sola (per economia), con un taglio riconoscibilissimo, di tre quarti più che frontale, la quale risente appunto del gusto fiammingo, di mi Petrus Christus, per esempio: esattezza fisiognomica e delectatio quasi morbosa dei dettagli simbolici. La corona di spine, le lagrime e le ferite ostentate del Cristo dei dolori, il cappio di corda, quasi una collana tragica, con cui fu trascinato dai soldati (ed in questo caso specifico, si tratta di un nodo marinaro). Il prodigio, non soltanto estetico, del Cristo alla colonna è dunque anche iconologico: con questa figura di uomo vinto dal dolore - i riccioli scarmigliati dalle offese della Flagellazione, la bocca leggermente schiusa ad esalare un sospiro di sconforto, gli occhi mandorlati e sciolti di glicerina, con le lagrime che come perle illusive nobilitano la pallida carnagione Antonello inventa una nuova iconografia, che fonde insieme i Cristi Portacroce, gli Ecce Ho¬ mo, i San Sebastiani di Bellini e Mantegna. Ma il dolore di questo Cristo che volge gli occhi imploranti a Dio (è il momento delì'«Eli, Eli, lamma Sabactani», «Dio, Dio, perché mi hai abbandonato?») non hanno nemmeno bisogno delle frecce del martirio: non è un'anima che soffre per le offese corporee, ma uno spirito che patisce attraverso il corpo. Così l'orante può immedesimarsi violentemente, proiettato con fisico coinvolgimento dentro la scena emozionante di tanto pathos teatralizzato, una vera zoomata dentro il dolore del mondo. Memore della serie straordinaria di Ecce Homo con cui Antonello ha «provato» le espressioni dei suoi Cristi: da quello di collezione privata, in cui Zeri ha riconosciuto un «aspetto che oggi si definirette mafioso», a quello impressionante di Piacenza, dalla smorfia amara, di guaglione «che se ne impipa», domandandosi perché mai si trovi su quella croce. Marco Vallora L'incontro a Napoli con i fiamminghi, momento cruciale nella vita dell'artista, ricostruito attraverso un capolavoro a lungo dimenticato Nell'immagine grande, la tavola «Cristo alla Colonna» giunta ai musei parigini del Louvre nel giugno dello scorso anno dopo lunghissime peripezie Qui sopra il quadro ottocentesco di J. F. Ducq che illustra l'arrivo di Antonello nello studio di Van Eyck. In alto un Cristo del pittore fiammingo