Buddha sorride agli imprenditori della Dallas gialla di Umberto Eco

3. da canton a dong guan. Ville e torri audaci dov'era palude 3. da canton a dong guan. Ville e torri audaci dov'era palude Buddha sorride agli imprenditori della Dallas gialla Visite a domicilio con Le Goffe Umberto Eco vestito da Indiana Jones dispacci dalla cina «t| DONG GUAN n ELLA città di Dong Guan, * delta del Fiume delle Per1 le, un misto fra Rimini e ± ! 1 Cattolica, dove il traffico aumenta di un terzo ogni anno e per fare spazio alle auto stanno abolendo le biciclette, abbiamo fatto questo esperimento. In un quartiere di villette nuove vagamente Parioli, abbiamo suonato il campanello di un bel cancello in ferro battuto decidendo di ignorare il furioso abbaiare del cane. Una signora in abito tradizionale (nero, lungo, con spacco laterale, un filo di perle), tenendo buono il cane ha ascoltato la nostra richiesta: potremmo visitare la casa? A parte la domanda, il gruppo le sarà sembrato strano. Umberto Eco vestito da Indiana Jones, Paolo Fabbri, tutto in nero, Jacques Le Goff, vestito come un gentiluomo di campagna nei film di Cluzot, e indietro, più timido, il giovane professore cinese Liu Wen Li, sociologo che ha imparato ad assecondare i colleghi venuti da lontano. Nonostante i suoi sorrisi e inchini a mani giunte, la signora è irremovibile. La sua casa no. Ma dall'altra parte della strada al numero 7 di Xinfengh Road, un signore cordiale, lucenti mocassini marroni, cintura Gucci su pantaloni kaki, maglietta Lacciste, ci invita a entrare nella sua casa. Ci salutano sulla porta una bella signora giovane e una bella bambina. Nonostante il tocco pariolino di marmi piante e fiori sui balconi, è una tipica casa cinese nel senso prerivoluzionario della parola: mura più alte delle finestre del pian terreno, il centro della casa verso il cortile interno. E' di lì che s'intravede una Mercedes bianca, nuova. Il signor Lu Han Liang, 50 anni, costruttore, ci invita a sederci in un soggiorno che - si capisce subito - non è il cuore della casa, ma una stanza esterna, riservata esclusivamente agli ospiti. La sala è fresca e moderna, i mobili sono cinesi tradizionali, scuri, pesanti, teste di draghi e zampe di leone. Su un lungo mobile basso c'è un Buddha che ride circondato da amuleti e statuette. Il padrone di casa ci guarda orgoglioso in piedi in mezzo alla stanza e aspetta domande. Jacques Le Goff, il medioevalista, vuol sapere del Buddha che ride e delle statuette sul mobile. Lu Han Liang spiega volentieri, seguito dalla bambina. La primastatuetta rappresenta la sicurezza; la seconda, la fortuna; la terza, la carriera. Il Buddha ride perché le cose vanno bene, «perché devono andare bene», precisa. Eco vuole sapere dei segni in cinese sulla porta. Sono tre sul battente di destra, quello che si apre più spesso, e sono all'esterno. E ci sono quattro segni sul battente di sinistra e sono all'interno. La ragione, dice il signor Lu, è semplice. I tre segni sul battente esterno servono a scoraggiare le influenze malefiche che possono venire da fuori. Ma qualcuna potrebbe furbescamente infiltrarsi, ci spiega. In un mondo ormai competitivo, bisogna stare in guardia dall'invidia. E allora funzionano i quattro segni all'interno, che l'influsso malevolo potrebbe non avere notato. La casa è salva, Lu Han Liang e la bambina ridono soddisfatti. Chiedo: da quando in Cina si può essere proprietari di una casa? Ricordo la mia ultima visita in Cina con Michelangelo Antonioni, nel '72, stesso mese di giugno. Le guardie rosse ci avevano portati a visitare un appartamento modello, in una casa-caserma costruita con pietre tolte alla Grande Muraglia. Era una stanza col lavandino, il letto, una culla, le mura senza intonaco, lui e lei immobili, rossi di freddo, che non hanno mai osato parlare. Alla parete un'infiltrazione d'acqua e un manifesto di Mao Tzetung. Lu Han Liang appartiene a un'altra epoca, a un'altra Cina: «Ho costruito io questa casa nel 1984. Poi ho aggiunto l'altra ala per le mie figlie. Ho costruito tutte le case del quartiere». Più tardi siamo ospiti del sindaco di Dong Guan, Yao Jin Bai, un giovane tutto statistiche, con l'orologio Swatch al polso, che ci dà questi dati. «Qui c'è un televisore per ogni famiglia, entro l'anno ci sarà il telefono in ogni casa, come frigoriferi siamo al settanta per cento. Con l'aria condizionata stiamo raggiungendo il cinquanta per cento delle famiglie. La scolarità è totale». Vorremmo sapere da lui della bidonville che abbiamo visto formarsi intorno alle costruzioni che sorgono dappertutto, quasi torri di tipo americano nuove, audaci, senza più alcuna traccia della tristezza sovietica. Yao Jin Bai, che ci ha tenuti a pranzo in un ottimo ristorante affollatissimo, consulta lo Swatch e taglia corto. «Che devo dirle? Qui siamo tutti imprenditori, in grande o in piccolo. Ma il fine è l'impresa». Lasciamo verso sera la nuova Dallas cinese. Sorge dove prima c'erano villaggi isolati tra paludi e boscaglia, sul Fiume delle Perle. Nessun economista al mondo se lo sarebbe aspettato. Ma paghiamo ancora un tributo alla vecchia Cina. Risalendo il fiume verso un percorso fangoso e senza strade, ci portano a vedere i resti del forte della battaglia dell'oppio. Da quello scontro con le grandi potenze di allora è nato il primo barlume di Cina come Stato-nazione. Ecco che cosa celebrano adesso, senza bandiere, senza gli ossessivi altoparlanti con le canzoni rivoluzionarie dei tempi delle guardie rosse. Educatamente, contro il nostro scetticismo, a questa gita al sacrario dello Stato-nazione, non vogliono rinunciare. Non ci resta che seguirli e prendere atto del loro nuovo patriottismo. Furio Colombo Un'immagine di Buddha

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