IL SAVIO BERTOLDO di Carlo Carena

ILSiWIO BERTOLDO ILSiWIO BERTOLDO Ritomo di un classico LA ripresa simultanea di due libri come Le astuzie di Bertoldo e la semplicità di Bertoldino del Croce, e La maschera di Bertoldo, a cura e di Piero Camporesi, ci rimette in mano il poema del celebre villano e gli strumenti migliori per interpretare autore e testo; di rinnovare un incontro in entrambi i casi sollazzevole e profondo. Tanto più che Camporesi, come ogni serio e onesto studioso, non ha abbandonato le sue creature a un angolo di strada, ma le ha seguite costantemente e nel rilevarle quindici anni dopo calibra il discorso su quanto è successo nel frattempo per via. Nel primo caso (G. C. Croce, Le astuzie di Bertoldo e la semplicità di Bertoldino, Garzanti, pp. 314, L. 39.000) informa e tiene conto del ritrovamento e della pubblicazione ad opera di M. Di Stefano e D. Zancani di un'edizione fino ad allora sconosciuta del Bertoldo, Piacenza 1609: edizione che, se difficilmente potrebbe presentare varianti d'autore rispetto a quella fondamentale dell'anno precedente, essendo il Croce morto nel gennaio di quell'anno stesso, tuttavia s'inserisce, ponendo i suoi problemi, in una tradizione tipografica complessa e interessante: come si sa, della prima stampa del Bertoldo, Milano 1606, si è perduta ogni traccia. Altri aggiornamenti sono introdotti nel già straordinario commento al testo; e ancor più incisivi arricchimenti ha richiesto lo sviluppo delle ricerche e delle scoperte negli studi di La maschera di Bertoldo (Garzanti, pp. 390, L. 28.000). Vagando per altre terre, mai tuttavia dissonanti nelle sue predilezioni, lo stesso Camporesi finiva per imbattersi anzitutto, entro un volume del frate viadanese Girolamo Menghi. Compendio dell'arte essorcistica (1582), in due sonetti caudati dello stesso Croce, non stupendi ma probabilmente eloquenti per i rapporti dell'autore del Bertoldo col mondo magico: sonetti che ora pubblica in appendice. Più ancora, all'interno del testo stesso del Bertoldo giunge del nuovo a riguardo del famoso episodio della morte del protagonista. I medici, come si ricorderà, non conoscendo la sua complessione, quando Bertoldo si ammalò «gli facevano rimedi che si fanno alli gentiluomini e cavalieri di corte»; mentre egli, che conosceva la propria natura, chiedeva spasmodicamente «una pentola di fagiuoli con la cipolla dentro e delle rape cotte sotto cenere, perché sapeva che lui con tali cibi sarebbe guarito»; essendogli stata la pentola negata, questo «altro Esopo, anzi oracolo» morì e fu pianto da tutta la corte. Ebbene, nei Capricci medicinali del medico bolognese - si gira nempre per casa - Leonardo Fioravanti c'è un consiglio che suona: «E' necessario ristorare gli ammalati con bonissimi cibi e non li vietare quelle cose che lor dilettano, [mentre] molte volte per la perfidia del medico l'ammalato non mangia per non poter gustare quelle sorti di cibi inusitati che il medico gli ordina [...] e per queste cause assai volte gli ammalati se ne vanno all'altra vita» ovvero, come si usa dire, «finiscono in terra a far pignatte». Ci troviamo qui evidentemente tra le fonti, nella biblioteca nota o meno nota o addirittura occulta del Croce; il quale in realtà doveva saperla lunga anche in fatto di libri, almeno quanto la sapeva lunga in fatto di vita la sua creatura. Le ascendenze e i magazzini sapienziali di Bertoldo sono sempre meglio definiti da questi acquisti non del tutto «volgari»: e il genio del Croce sarà ben stato anche quello di averli travasati, o riportati, nel mondo contadino. Molti apporti «alti» sono ravvisabili nelle Astuzie di Bertoldo, un intero filone di sapienza proprio anche dell'etica colta. Se fin dal limitare, anzi alla primissima domanda posta dal re Alboino il villano Bertoldo risponde: «Il mio paese è questo mondo», questa è buona filosofia presente già nei proverbi dei Greci e nella filosofia classica. Subito dopo egli definisce «fratello della morte il sonno» esattamente come Omero nell'IZiade, libro XIV e nell'Odissea, libro XIII; come Virgilio nell'Eneide, VI 278 e altri magnati. E luoghi comuni anche cólti sono quelli immediatamente successivi dell'insaziabilità dell'avaro o del maggior rischio di cadere che ha chi più in alto siede... Bertoldo appartiene sì alla razza dei fagioli, partecipando, come del resto tutti noi, degli alti e bassi che fanno nelle pentole in ebollizione; ma appartiene anche alla razza degli antichi cinici. Fin da quando entra in scena e passa in mezzo ai baroni della corte senza cavarsi il cappello né fare atto alcuno di riverenza, come Diogene di fronte ad Alessandro Magno; disprezza la condizione dei nobili, ne scorge l'adulazione; invitato a diventare anch'egli un cortigiano, rifiuta poiché «non deve cercar di legarsi colui che si trova in libertà»; e delle sue facezie c'è ben poco da ridere, poiché «le risa abbondano sempre nella bocca de' pazzi»: che è un detto della tradizione comica greca. Anche attraverso queste risorse Bertoldo afferma la dignità propria e del suo mondo. Mostra come la sapienza popolare ha una sua qualità, parallela ma spesso addirittura intersecante; preziosa non solo per il suo mondo, dove nasce e si sviluppa attraverso il crogiuolo agrodolce dell'esperienza, ma anche per quello delle corti. Bertoldo non contesta, ma si contrappone e si offre con un pensiero meno teorico, meno esteriore, meno raffinato, più solido e impavido per la sua asistematicità e contami nazione. Si è dunque potuto parlare della «savia accortezza» rinascimentale anche per Giulio Cesare Croce, e di un suo «barocco contadino», accanto, si capisce, a tutti quei legami popolareschi, carnascialeschi luoghi di gran rifiuto e di contestazione in piazza - per i quali i contributi di Camporesi sono fondamentali e determinanti. Dai libri nasce un altro forte debito del Croce nella creazione del suo Bertoldo e nell'evoluzione del personaggio dalla maschera semplicemente mostruosa e deforme che ha nel suo archetipo, il medievale Dialogo di Salomone e Marcolfo. Circolava da qualche decennio anche in Italia una Vita di Marco Aurelio imperatore dello spagnolo Antonio de Guevara, storiografo di Carlo V, e una copia, suggerisce Camporesi nell'offrirci questo nuovo contributo, doveva pur essere presente nella sezione o «minestra» di libri spagnoli della «libraria» di Giulio Cesare Croce. Nel libro del Guevara un villano, anzi un «animale in forma umana» giunge alla corte dell'imperatore filosofo dai remoti Balcani - da sempre «crocevia di inquieti e sorprendenti personaggi», - a chiedere giustizia per il suo popolo oppresso dai conquistatori romani, «gente senza ragione». I suoi «ragionamenti» sono ascoltati e meditati dai senatori confusi e sorpresi, e il sapiente barbaro viene onorato dall'imperatore con un vitalizio e la promozione al titolo di Patrizio romano. Nello stesso modo, anche per l'aspetto, e istruito da quell'altro mostro umano d'origine orientale ch'è Marcolfo, Bertoldo entra alla corte generica di Alboino. E' in linea con quest'altro suo antenato deforme ma eloquente, patrocinatore dei deboli presso un imperatore romano, che Bertoldo da puro e semplice ed eterno villano diverrà consigliere di un re barbaro e ascenderà alla stima generale «di Esopo, anzi di oracolo». Di più, il lungo testamento conclusivo di Bertoldo, un vero legato e vademecum per Alboino, presenta parecchi tratti in comune con i consigli e le sentenze che nella Vita di Marco Aurelio del Guevara l'imperatore affida morendo al figlio Commodo. Così si spinge fin dentro alle Astuzie di Bertoldo del magnano e cantastorie Giulio Cesare Croce la tradizione retorica umanistica, e si trasmette loro la problematica politica seicentesca. Carlo Carena

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