Canto notturno di un giovane ebreo inquieto di Osvaldo Guerrieri

«Berci il folle» di I. L. Perez tradotto, adattato e diretto da Moni Ovadia, prodotto dal Crt di Milano «Berci il folle» di I. L. Perez tradotto, adattato e diretto da Moni Ovadia, prodotto dal Crt di Milano Canto notturno di un giovane ebreo inquieto Creazione finissima, protagonista diabolicamente candido SETTIMO. Ci voleva Moni Ovadia perché facessimo la conoscenza di Ishaq Leib Perez. Il bulgaro Ovadia è un cultore di musica e letteratura jiddish. E' così pervaso dalle sonorità e dalle parole della tradizione ebraico-orientale da farne il fondamento della propria espressione teatrale. «Dalla sabbia... dal tempo» (1985) e il recente «Golem» documentano magnificamente una forma di spettacolo in cui la parola proviene dalla musica e ne diventa quasi il doppio speculare. Forse era inevitabile che, nel suo percorso tra arte e antropologia, Ovadia giungesse ad interrogare i padri della letteratura jiddish. Ed ecco perciò I. L. Perez, avvocato di Lublino morto a Varsavia nel 1915, poeta, prosatore e pessimo drammaturgo che Claudio Magris colloca ai vertici della narrativa ebraico-orientale. Ovadia ha tradotto (con Elena Janaczek), adattato e diretto il racconto «Berel il folle» che, prodotto dal Crt di Milano, è andato in scena per due sere soltanto al Garybaldi di Settimo con le musiche di Alfredo Lacosegliaz e l'interpretazione di Olek Mincer. Semplice nella forma ma complesso nella sostanza, «Berel il folle» ci porta nel cuore lirico e introspettivo della letteratura jiddish del primo Novecento, in un clima di sdoppiamenti, di mascheramenti, di abissi psichici che la soluzione finale di Hitler spazzerà via con tragica violenza. Al centro della vicenda troviamo il giovane Berel. Ha trent'anni, indossa abiti scuri, stivali; l'aspetto febbricitante ci fa intuire una natura inquieta e notturna. Si muove nell'ambiente molto stilizzato di Pierluigi Bottazzi: uno scheletro di cupola che forse è una locanda. Un prisma di legno, molto simile al casotto dei burattini, ospita un suonatore di clarino, mentre in fondo alla scena, appena rivelato dalla luce delle candele e dei lumi a petrolio, intravediamo un violinista-fisarmonicista con cappottone e colbacco, un Pugacev al seguito del mago di Lublino. Berel si chiede: «Chi sono io?». Cercando la risposta si definisce ora un fannullone, ora un matto. Misura a gran passi la scena. Vorrebbe dire che un uomo è un uomo. Ma che senso ha questa tautologia? Lui non è un uomo, è un ebreo. Forse gli è entrato nell'anima un Dibbuk, uno spirito maligno che gli impedisce di spiegarsi a se stesso. E dunque, da capo, «chi sono io?». L'inchiesta potrebbe non aver fine. Nel suo inesauribile percorso si mescola con figure e con episodi della tradizione jiddish, incontra personaggi strani, come la donna che, non paga di due mariti, ne vorrebbe un terzo... E' tale il tormento psicologico, che Berel medita il suicidio pur di arrivare alla conoscenza di sé. Soluzione ironica, persino sarcastica; ultima stoccata dopo le migliaia di cui è disseminato il testo e che la musica, nel suo fondamentale commento, fa affiorare con risonanze orientali, ma anche con mazurche e con tanghi, a tratti travolgendo e soffocando la parola, oppure sfilacciando le lunghe frasi di Perez che procedono per inestricabili impasti linguistici. Bisognerebbe conoscere a fondo la cui- tura jiddish per cogliere a fondo molti particolari dello spettacolo. Ma certe impenetrabilità di senso e di sostanza non ci impediscono di apprezzare una creazione finissima, affidata all'interpretazione di Olek Mincer, il cui Berel sembra uscito dal sottosuolo di Dostoevskij, con quel tanto di demoniaco, di candido e di passionale che ce lo rende fraterno. Osvaldo Guerrieri L'attore Olek Mincer in un momento di «Berel il folle», spettacolo con la regia di Moni Ovadia

Luoghi citati: Lublino, Milano, Varsavia