«lo ho nascosto l'oro di Dongo»

«lo ho nascosto l'oro di Dongo» «Me lo consegnò un comandante dei gap nella sede clandestina del partito» «lo ho nascosto l'oro di Dongo» // cassiere delpei svela il segreto del tesoro L'ULTIMO MISTERO DEL DUCE LMORO di Dongo, la «favolosa» ricchezza di cui si fantastica dalla fine della Seconda guerra mondiale, finì nelle casse del pei. La conferma, che numerose inchieste e un processo, quello di Padova del '57, non riuscirono mai a trovare, arriva 48 anni dopo. I sacchi di monete e l'oro, con cui Mussolini e i tedeschi cercavano di fuggire dall'Italia liberata, furono consegnati da Aldo Petacchi - capo di una formazione dei gap - ad Alfredo Bottelli, reduce da Ventotene, divenuto tesoriere del «pei clandestino», nell'Italia occupata, alla fine dell'aprile '44. Bonelli, classe 1910, nel pei dal '27, una figura imponente, due occhi chiari, il volto quasi teutonico, smistava denaro, archiviava documenti e provvedeva a versare 5 mila lire mensili (la paga uguale per tutti) a una quarantina di funzionari che costituivano l'apparato del partito. Nell'ultima fase della guerra di liberazione, quando il pei cominciava a pensare alla propria riorganizzazione nella legalità, il tesoriere ricevette da Pietro Secchia l'incarico di occuparsi dei «recuperi» (il bottino di guerra) dei partigiani e della campagna di sottoscrizioni lanciata dallo stesso leader comunista. «Nell'appartamento di via Palestrina a Milano - racconta Bonelli nelle sue memorie dattiloscritte - eravamo in quattro: Secchia, Arcangelo Valli, io e una compagna di Treviglio. In portineria avevamo messo un compagno che faceva da guardiano». Fu in questi locali che Bonelli ricevette almeno quattro recuperi di una certa consistenza. Nel settembre del '44, il primo: «Le nostre formazioni della.. Valsesia . intercettarono una colonna di collaborazionisti francesi in fuga. A noi inviar rono-franchi francesine altre valute». Nei giorni della Liberazione, un altro malloppo fu consegnato dai socialisti: «Venne da noi un ragazzo con una valigetta'piena dì valute da dividere in parti uguali. A Secchia non piaceva molto l'idea di fare a metà con i socialisti e mi chiese di trattenere la parte più consistente. Io ero imbarazzato e salvai capra e cavoli incamerando quasi tutte le sterline bianche che, essendo state falsificate dai tedeschi, erano pra- ticamente prive di valore. Quando il ragazzotto tornò a prendere la sua parte si accorse che erano spariti i tagli grossi delle valute inglesi. Protestò e se ne andò mortificato». Ma il recupero più grosso affluì alle casse del pei nel maggio '45: «Secchia mi disse: vai su che c'è del lavoro per te - racconta Bonelli -. Salii e vidi il Petacchi. Lo conoscevo bene, era stato a Ventotene con me. Era armato. Mi fece una gran festa e mi consegnò dei sacchetti di juta. Verificai dopo il contenuto: 30 milioni in biglietti da mille e 36 chili di oggetti d'oro, anellini, spille, orecchini, tutti molto leggeri». Né Bonelli, né, forse, Petacchi conoscevano la provenienza di quel tesoro. «Mi accorsi di cosa si trattava soltanto quando sui giornali si cominciò a parlare insistentemente di 30 milioni e di 36 chili di oro spariti». Attorno a quel malloppo (l'unico di cui esistesse documentazione) ed all'altro denaro ritrovato, fiorì la laggenda dell'oro di Dongo. Più i giornali ne scrivevano, più il tesoro lievitava di valore: si arrivò a parlare di oltre un miliardo. Nel suo libro-confessione pubblicato recentemente, «Dongo, mezzo secolo di menzogne», Urbano Lazzaro (il par- tigiano che il 27 aprile '45 catturò a Dongo Mussolini, Claretta e Marcello Petacci e molti componenti del governò della Repubblica Sociale) cita il rapporto segreto dell'allora questore di Como, l'avvocato Davide Grassi, al presidente del Consiglio Alcide'Gasperi,; in cui si avanza il sospetto • che i il «malloppo» sia finito nelle casse del pei. Poi la precisazione: «...col permanere al governo di esponenti di quel partito, ove si facesse piena luce sull'oro del duce... si avrebbero reazioni che oggi sarebbe assai difficile prevedere». Quei sacchi di denaro e oro erano stati recuperati dal fondo del fiume Mera, dove erano stati gettati dai tedeschi dell'autocolonna del tenente Schallmeyer in fuga, dal pescatore Rino Santi di Sorico. In un primo tempo furono depositati presso l'agenzia Caripio di Domaso, ma poi, prelevati, scomparvero nel nulla. Nel periodo in cui i partigiani comunisti entrarono nel mirino dei giudici, la sparizione del malloppo si legò a doppio filo con le uccisioni, mai chiarite, del capitano Neri (Luigi Canali) e della sua amante Gianna (Giuseppina Tuissi). Si disse e scrisse che i due sapevano del tesoro ed essendosi opposti alla decisione del pei di incamerarlo vennero messi a tacere. Al processo di Padova, i fatti furono ricostruiti in maniera contraddittoria. Furono interrogati numerosi testimoni per ottenere la conferma che il denaro e l'oro fossero finiti nelle casse del pei, ma non si giunse ad alcuna conclusione. Il parti¬ to non si discostò mai dalla linea assunta già nel '48, in piena bufera per i fatti di Dongo, quando, nel tentativo di spazzare ogni sospetto, l'«Unità» scrisse che il partito aveva incassato poco più di un milione di lire per le spese correnti. E invece, ora se ne ha la conferma: qualla parte dell'oro sparita nel nulla finì proprio nelle mani del tesoriere del partito ed andò ad alimentare il flusso di denaro proveniente dalle sottoscrizioni. Denaro subito investito. Bonelli racconta: «Avevamo comperato, ancora in clandestinità, una piccola officina, la stessa in cui vennero fusi gli oggetti d'oro del tesoro di Dongo. Un compagno orefice, fatto venire apposta da Valenza, analizzò quei piccoli gioielli: una lega poverissima, il 400 per mille, tanto da fargli dire che non erano di fattura italiana». E continua: «Avevamo acquistato anche una villetta e investito soldi in quell'edificio milanese che doveva ospitare il cinema Arlecchino». Al Bonelli pervenne infine un quarto recupero, per il quale qualche anno dopo subì un processo. Era il denaro recuperato dai partigiani di Novara: i repubblichini l'avevano stampato ed intendevano trasferirlo a Genova, forse per imbarcarlo, ma la colonna fascista cadde in un'imboscata. Gli alleati chiesero che quel denaro venisse messo fuori corso. Ci fu una una lunga controversia con la Banca d'Italia ma, racconta Bonelli, «quando seppi che farlo circolare era un rischio, lo riciclai grazie a cassieri amici in alcune banche milanesi: c'era chi loi faceva sola, per aiutarci; a qualcuno abbiamo dovuto dare il 10 per cento». Una pecentua le tutto . sommato contenuta, dato che all'organizzazione clandestina messa in piedi dai soldati americani, per riciclane valute straniere, si doveva dare fino al 50 per cento. E il pei, attraverso Bonelli, vi fece spesso ricorso, come nel caso dei franchi francesi che De Gaulle aveva svalutato. Pier Luigi Vercesi «Fu Pietro Secchia ad ordinare ai partigiani di dare a me il denaro fascista» «Erano 30 milioni di lire e 36 chili di gioielli Li investii in immobili» li capitano Neri, nome di battaglia di Luigi Canali, e Gianna (Giuseppina Tuissi), amante del Neri, entrambi uccisi in circostanze misteriose Mussolini, sotto, e, a sinistra mentre sale sull'auto che da Milano lo porterà a Como, da dove proseguirà per Dongo Sopra, il leader del pei Pietro Secchia che diede l'incarico a Bonelli di incamerare il denaro