Ucciardone, festa finita per i boss

Uctiardone, festa finita per i boss NEI GIRONI DELL'ULTIMO INFERNO Fino a un anno fa i capiclan in cella brindavano, ricevevano e trattavano alla pari col potere Uctiardone, festa finita per i boss Rivincita dello Stato nel carcere di Palermo PALERMO DAL NOSTRO INVIATO Nel giorno in cui Palermo, l'Italia e forse anche il mondo intero ricordano la morte di Giovanni Falcone, sono sceso nelle viscere di questa città, nel suo teatro più tetro: il carcere dell'Ucciardone, il luogo in cui fu avvelenato Gaspare Pisciotta, quello in cui Tommaso Buscetta fece il suo secondo tirocinio; il carcere in cui fino a un anno fa i boss dei boss brindavano, ricevevano, trattavano da pari a pari con il potere. Pensavo che l'Ucciardone sapesse di cavolo e di latrina. E che fosse soltanto un luogo lugubre, angusto, perverso. Ne esco con una strana sensazione. Ho visto qui uomini diafani e lontani separati dalle sbarre, figure di creature appartenenti al mondo penoso e allarmante della prigionia. Nella torrida giornata di questo maggio già troppo maturo, si respira anche l'aria della nuova Palermo, in cui forse c'è un po' troppo show antimafia di maniera, ma anche una dirompente ed inebriante voglia di novità. Voglia di colpi di barra. Quella voglia di cambiamento arriva anche qui, in questa rocciosa cassaforte della memoria, in cui molti misteri si consumarono e molti delitti presentano ancora la loro impronta visibile, non appena si oltrepassa il piazzale interno, invaso dalle chiome di ficus secolari, grandi come sequoie. Entro nell'Ucciardone poco dopo il mezzogiorno. Il taxi mi lascia davanti all'ingresso principale su un controviale gigantesco dal quale si intravede il mare e le torri metalliche del porto. L'architettura, la temperatura, il grande spazio deserto vigilato da uomini in armi fa pensare alla Colombia di Màrquez, alla fortezza di Cartagena. Varco il portone d'acciaio grigio. Da questo portone tante e tante volte passò Giovanni Falcone. E anche Paolo Borsellino. E tutti i grandi giudici di Palermo, compreso Giancarlo Caselli, piemontese come Carlo Alberto Dalla Chiesa che qui fu il comandante della legione per quasi un decennio e poi il prefètto sacrificale assassinato da Cosa Nostra. Varco il passo oltre il quale si apre la sezione in cui Buscetta fece la sua università mafiosa diventando amico di Stefano Bontade, figlio di Paolino, il vecchio boss che prendeva a schiaffi i deputati che non gli obbedivano. Qui, come ha detto nell'ultima udienza Totò Riina, i mafiosi ci venivano per farsi la villeggiatura. Oggi l'Ucciardone - ecco la sensazione che colgo alla fine - è tornato ad essere un pezzo dello Stato, non è più la patria e lo strumento di Cosa Nostra. Le cucine sono in grandi stanze pulite e racchiuse nella penombra. Per terra, sui gradini e in qualche corridoio, tracce di sporcizie. Sono le tracce di quella piccola rivolta che ora pudicamente viene chiamata «la manifestazione». Fu una settimana fa, quando Totò Riina era ospite di passaggio. All'improvviso, rumore di gavette contro le sbarre, urla ritmate dalle celle, fuoco alle lenzuola e alle suppellettili; poi le fiamme fino alle pensiline di plastica, fumo alto e denso. Si disse: ecco, la mafia fa sentire la sua voce. Poi però, di colpo, la sollevazione finì. Durò quanto durò Riina qua dentro. Un solo giorno. Oggi il comandante delle guardie carcerarie Agati, grande grosso e barbuto come Bud Spencer, mi garantisce e sembra sincero che la mafia e Riina non c'entravano nulla: «Si trattava di una pura e semplice protesta contro l'applicazione di un articolo del regolamento, il 41 bis, che limita alcune facilitazioni per i detenuti, come i permessi per telefonare o i colloqui, per non dire del numero delle "buche", cioè dei pacchi mensili consentiti. Così, c'è stata un po' di maretta, ma poi io ho chiamato alcuni detenuti e ho parlato con franchezza. Ho spiegato che potevano soltanto ottenere risultati peggiori, con le cattive. Con le buone, invece, ragionando si poteva vedere di trovare una soluzione. Oggi i detenuti non sono più dei rozzi analfabeti, incapaci di ragionare. Oggi capiscono, sanno leggere e difendere un'opinione e capire anche quelle degli altri. Risultato: tutto è finito in poche ore». Le rivolte dell'Ucciardone, del resto, sono state rare. Ce ne fu una semmai del tutto finta: quella dell'11 maggio 1980 inventata di sana pianta dal questore Immordino come diversivo per tenere alla larga da una vasta operazione di polizia quel Bruno Contrada, dirigente del Sisde sospettato già di essere stato il protettore di Riina, ora inquisito anche per la strage di Capaci. Con un senso di inquietudine e di curiosità entro nella 9a sezione del carcere palermitano. Mura dipinte di grigio, il capoposto nel suo ufficio pieno di registri, la piccola aula in cui si tengono le lezioni per le classi elementari. La 9a sezione un tempo, nel tempo eroico del giudice Falcone e del pool antimafia, era una delle case protette e preferite di Cosa Nostra. Vedo la cella in cui entrò un altro grande futuro pentito, Francesco Marino Mannoia, che poi giusto un anno fa durante il processo a Washington cominciato il 28 luglio 1992 raccontò che cosa succedeva realmente qui in questo braccio mafioso: summit, festini, ricevimenti, amministrazione della ordinaria giustizia mafiosa. E' una cella ampia, comoda, oggi interamente rinnovata. Non c'è più traccia del bugliolo, e neppure del cesso in un angolo della stanza. Adesso tutte .le celle hanno un loro piccolo e discreto bagno, separato da una porta. L'intimità delle viscere è finalmente garantita. La disumanità va scomparendo, ma quello che Mannoia ha raccontato sui fatti e sul clima di quella 9a se- Afu zione di un tempo va ben oltre le prospettive di una saggia riforma carceraria. Mannoia è stato prodigo di particolari ricordando come la 9a sezione fosse il luogo d'asilo degli uomini d'onore. Era una sorta d'albergo all'interno del carcere, in cui Giovanni Bontade faceva gli onori di casa e provvedeva alle elargizioni, come nel caso in cui volle regalare un paio di scarpe nuove al recluso Stefano Fontana. Mannoia rimase qui per due lunghi anni. Due anni in cui Cosa Nostra poteva fare fra queste mura la voce grossa o anche la voce sottile: apparentemente ragionevole, la voce della persuasione che sussurra: anche noi siamo gente d'ordine e possiamo garantire persino il vostro ordine; è sufficiente che riconosciate la nostra funzione e la nostra autorità, vedrete come tutto filerà liscio. Mannoia ricordava modesti ma memorabili festeggiamenti in cella, con brindisi di «Mosciadò», vale a dire champagne Moét & Chandon. Vengo condotto nell'ufficio del direttore, la dottoressa Gandolfa Trabunella, una signora bionda con gli occhiali. Indossa una camicetta bianca a righine azzurre e un golf celeste. Sarà lei a guidarmi nel carcere. I primi detenuti che mi capita di vedere sono quelli dell'infermeria, in isolamento. La parola «cella», apprendo, è colpita da tabù. Si deve dire stanza. Nelle stanze di questo reparto gli uomini in isolamento sono pallidi e se ne stanno gettati sulle brande disfatte. Anche il comandante delle guardie, Giuseppe Agati, mi guida nella visita: quest'uomo imponente e mite vive e lavora fra queste mura da 14 anni, quando entrò come semplice guardia. Ma è figlio d'arte: «Mio padre lavorava qui. E anche mio nonno. Sì, che cosa vuole, ne abbiamo viste tante e tante ne abbiamo sentite qui dentro. No, non possono dirle nulla, anche perché noi in fondo siamo sempre stati gli ultimi a conoscere certe cose sulle quali peraltro si è creata e diffusa una leggenda assolutamente sproporzionata. I fatti storici in realtà sono spesso deludenti. E ormai la leggenda non è più confutabile. Comunque, posso garantirle che ciò che lei vede oggi è un autentico carcere dello Stato che funziona molto meglio di tan¬ te altre carceri di Stato, malgrado il sovraffollamento». Nulla di quel che si vede è propriamente atroce, o indecente; ma la semplice condizione dell'essere umano prigioniero come un animale stringe il cuore. E tuttavia questi uomini dagli occhi di cane bracco, questa gente ossequiente e spaventata, ansiosa di compiacere l'autorità per ottenere in cambio benevolenza e benefici, è composta di piccoli e grandi criminali, ma anche di ladri di polli e balordi, più o meno lo stesso genere di fauna che si trova all'alba nei pronto soccorso. Un vecchio si aggrappa alle sbarre come se non si sapesse dar pace della sua condizione. Un barbone sta sdraiato sulla branda in una indifferenza prossima al co- ma. E poi comincia il girone dei ladri, dei truffatori e degli assassini. Non posso varcare le cancellate maggiori, non posso arrivare fino al cuore dell'inferno carcerario, perché non mi è consentito. Un lungo corridoio sul quale si affacciano celle e ancora celle, alcune con la porta chiusa, altre con la vista a giorno oltre le sbarre, ricorda il tremendo cunicolo del film «Il silenzio degli innocenti», anche se qui non esistono più delle belve umane recluse, non da quando almeno il decreto di Martelli e Scotti le portò fuori e lontane da qui nell'isola di Pianosa. Ma prima di quel momento, appena un anno fa, i boss esistevano, vivevano, ordinavano omicidi, mangiavano e brindavano. E qui, proprio qui, Giovanni Falcone veniva armato di pazienza e di carte, interrogava, ascoltava in quel suo silenzio decifratore. Il giudice se lo ricordano ancora: un osservatore silenzioso capace di osservare e guardare per ore senza aprire bocca. Si vedeva l'ordito dei suoi ragionamenti attraverso gli occhi socchiusi. Così almeno mi dice la direttrice dell'Ucciardone, che aveva un rapporto quasi quotidiano sia con lui che con Paolo Borsellino. Chi lavora nel carcere, osserva i detenuti. Anche i detenuti osservano gli altri detenuti e osservano coloro che osservano i detenuti. All'interno di queste mura, scrutare è la principale attività. Tutti si guardano con occhi interrogativi, anche se pochi hanno intenzione di rispondere. Per osservare i detenuti non esistono soltanto gli spioncini nelle porte delle celle, ma anche perfetti fori nei vetri e nelle pareti — Tutti i muri sono bucati, sono bucate le porte, è bucata anche l'aria. Sbarre e buchi, chiavistelli e facce da insonnia, da guerra, da ma/ lattia. Dal buco nel I muro vedo anch'io la I toilette, anzi soltanto il | water. Le celle hanno il televisore in bianco e nero, ma si sta passando al colore. Per decidere il programma serale i detenuti litigano di notte con urla risentite e talvolta si sentono scoppi di pianto. I prigionieri non portano scritti in faccia i loro delitti, ma la loro pena sì. L'odore dell'Ucciardone è fatto di polvere, sole, pioggia e un remoto, neonatale sentore di diarrea. Chiedo notizie sulle violenze interne e gli abusi sessuali. Mi rispondono che questo genere di fatti non emerge mai alla luce. I detenuti appaiono come figure pallide, con la barba lunga, lontane nella loro tuta o in maglietta. Vivono in un limbo di metallo e di vernice, di orina e tempo senza storia. Si salutano tra loro e ti salutano quando passi. E' tutto un mormorare buongiorno e buona giornata. Come una litania, come un rosario, forse per ricordare a chi entra in visita che qui nessun giorno è buono, ma permane ostinatamente la memoria di un passato in cui il saluto e l'augurio avevano senso. Delia, 9 anni, è la figlia della direttrice. Abbraccia la madre e racconta dello spettacolo che si sta allestendo nella sua scuola: «Uno spettacolo sulla mafia», spiega la madre. Non l'avesse mai detto. La bambina s'indigna: «Come "sulla"? "Contro" la mafia, non sulla mafia. Allora non hai capito niente». Mi fa vedere, ad uso del balletto scolastico, come sa mimare il sussultante crepitare del mitra. Non c'è male. La bambina di 9 anni è integrata nella nuova dimensione liberatoria e finto-apocalittica della cosiddetta «cultura antimafia», in cui si sostiene che la Mafia è il Male e sta sempre altrove, un male orribile e altrui. Legato e collegato a poteri esterni e imprendibili. La mafia finisce col diventare l'erede della strega di Biancaneve o di quella di Hansel e Gretel. La mafia è certamente un tema esaltante per una coreografia infantile della terza elementare: la bambina spiega che le forze del bene indosseranno le magliette rosa mentre quelle del male l'avranno nera o blu. Le tenebre contro l'innocenza, a patto che davvero il mondo possa essere salvato dai bambini. Paolo (Suzzanti Il capo delle guardie: su questa prigione è nata una leggenda sproporzionata Oggi, nonostante il sovraffollamento funziona meglio di tanti altri penitenziari Un lungo corridoio ricorda il cunicolo del film «Il silenzio degli innocenti» 8S88 ®J SJP Al vecchio carcere palermitano dell'Ucciardone fino a qualche tempo fa i boss mafiosi vivevano con tutti i comfort 8S88 Ricevevano visite di parenti e amici ®J e pasteggiavano a champagne SJP Qui sopra, Tommaso Buscetta Anche il più noto pentito di Cosa Nostra fu ospite del vecchio carcere di Palermo A destra, una cella dell'Ucciardone Qui sotto il pentito Francesco Marino Mannoia

Luoghi citati: Capaci, Cartagena, Colombia, Italia, Palermo, Washington