I maestri folli della pulizia etnica di Giuseppe Zaccaria

Fra i capi cernici nel monastero di Knesina, gli imbonitori televisivi, gli intellettuali di Belgrado. A scuola di razzismo Fra i capi cernici nel monastero di Knesina, gli imbonitori televisivi, gli intellettuali di Belgrado. A scuola di razzismo I maestri folli della pulizia etnica «Verrà l'apocalisse, solo noi serbi ci salveremo» KNESINA DAL NOSTRO INVIATO Leva alta la spada, il Duca Vojislav, mentre nel monastero ima nebbia profumata ammanta d'incenso la cupa epica del coro. «Giuri tu, "voivoda" Uros, dinanzi a Dio e al Santo Sava, di lottare con tutte le forze per lo Stato Serbo Unificato?». «Lo giuro. E che Dio mi aiuti», risponde l'altro, baciando prima la Bibbia poi una croce ortodossa. Si alza, abbraccia il capo, gli stampa in volto i tre baci della tradizione. Le urla d'approvazione dei cetnici erompono in un ruggito che solo il crepitìo di cento armi riesce a sovrastare. C'è della suggestione, in questa liturgia, e non perché si stia svolgendo in un antico monastero ortodosso a sessanta chilometri da Sarajevo, in pieno «territorio liberato». Non perché mentre il «Duca» Seselj e le sue «aquile bianche» celebrano la nomina di diciotto nuovi comandanti, tre miglia più in alto una coppia di «jet» occidentali trancia il cielo con bianche sottolineature del rischio che la «no fly zone» possa di colpo tramutarsi in area di bombardamento. Non è nel contrasto, il perverso fascino di questa cerimonia, quanto nelle espressioni dei convenuti. Diciotto estremisti serbi da oggi potranno sostituire al piccolo tricorno contadino la «sciubàra», anacronistico cono nero che fu segno distintivo dei Capi. Isolamento e vergogna Lo senti echeggiare nei canti, il sogno della Grande Serbia. E in qualche modo riesci anche a intuire come il senso di isolamento e vergogna che pervade questo Paese, la convinzione di avere tutto il mondo contro, riescano a dare vita a una reazione. Orgogliosa, quasi sempre. A volte testarda. E in alcuni circoli intellettuali, allucinata al punto da sfociare in una teorizzazione dello sterminio, tentativo di legittimazione di una superiorità razziale. In una sorta di moderno e terribile Mein Kampf. «Noi siamo la stirpe d'Adamo. Quello di Serbia è un popolo dal destino tragico e divino, popolo del Cielo e della Morte. All'origine della nostra identità etnica c'è la congiunzione fra Cielo e identità nazionale». Attenzione, non stiamo scorrendo un altro rituale, questo non è un nuovo passo della liturgia di un «voivoda». Il brano è tratto da un libro pubblicato appena due anni e mezzo fa, e adesso distribuito come Bibbia dello sciovinismo. S'intitola Luda Zemlja, ovvero Il Paese Folle: nella traduzione francese ha scandalizzato L'Express. Qui, fra gli apologeti dell'olocausto, viene definito semplicemente prirùcnik, Il Manuale. Manuale di razzismo firmato da uno psichiatra, teorizzazione della paranoia, tentativo (fra i più ignobili che ci sia mai accaduto di scorrere) di fornire supporto «scientifico» all'odio e alla volontà di sterminio. L'autore, Jova Raskovic, già direttore dell'ospedale psichiatrico di Sebenico, è morto d'infarto meno di un anno fa, ma il suo pensiero continua a fare proseliti. La tesi portante? «I piccoli popoli hanno una costante paura delle nazioni più grandi, ed è questa paura a generare la loro paranoia. Noi ci siamo fatti imporre un complesso di colpa». Per uscirne c'è solo una via: quella della ribellione. Bisogna ribellarsi all'«autorità paterna» (quella dell'Occidente), per farla a pezzi: «Il serbo è un popolo edipico: esso esprime in questa resistenza il valore guerriero, ed è l'unico in grado di esercitare una reale autorità sugli altri popoli di Jugoslavia». Popoli che naturalmente non sono infiammati dalla paranoia creatrice ma afflitti da complessi secolari. «I croati - insiste il teorico della serbocrazia - effeminati dalla religione cattolica, soffrono un complesso di castrazione che li rende totalmente incapaci di esercitare qualsivoglia autorità. Umiliazione che essi compensano attraverso una grande cultura». Ma seguite ancora questo passo, dedicato ai musulmani di Bosnia-Erzegovina, e provate a rapportarlo a quanto sta accadendo sul piano politico e multare, al loro schiacciamento progressivo. «I musulmani - scrive Raskovic - sono vittime di frustrazioni anali che li spingono ad ammassare ricchezze e a trovar rifugio in atteggiamenti fanatici». Una conclusione? «La realtà umana s'arricchisce attraverso la distruzione dei mondi inferiori: ed è nei cataclismi che si rivela la realtà etnica del popolo serbo». La tentazione di liquidare «Il manuale» come l'opera di un visionario sarebbe forte. Purtroppo, la prefazione a quel libro («Grazie a una comunicazione metafisica con tutti i serbi... Raskovic ha risvegliato questo popolo addormentato dal regime di Tito e adesso lo spinge a reclamare la propria identità. Apre ad un nuovo umanesimo dell'ideologia») porta la firma di Dobrica Cosic, notissimo scrittore. Malauguratamente, si tratta anche dell'attuale presidente della Federazione Serbo-Montenegrina. Raccontano che con questo tentativo di fornire basi biologi¬ che alla voglia di massacro, Raskovic avesse fortemente influenzato il pensiero di un altro psichiatra, il professor Radovan Karadzic, attuale presidente della repubblichetta di Pale, in Bosnia. Certo, fa impressione oggi udire Karadzic che dichiara al mondo: «Il piano Vance-Owen prosciuga le basi biologiche della nostra identità culturale». Colpiscono i discorsi di Biljana Plavsic, la «zarina nera» («Separare i serbi di Bosnia significa rendere impossibile la loro sopravvivenza sul piano biologico»). Perfino Milja Vujanovic, ex attrice di scarso successo e adesso astrologa di fama, dal secondo canale tv fra un oroscopo è l'altro riesce a inserire frammenti dell'antica lezione («Non temere, cara: il tuo uomo emigrato in Germania tornerà. E non dimenticare che i tedeschi sono nostri nemici ideologici e genetici»). «La "resa" non esiste» La pubblicazione del «Manuale» non è avvenuta invano. «Credo ci sarà un'Apocalisse che colpirà il mondo, ma i serbi non devono temere: sopravviveranno»: ecco un luminoso caso di estensione dei deliri di Raskovic. «Noi serbi siamo al centro di una congiura che ha molte ragioni. Anzitutto la Germania, che cerca uno sbocco sui mari caldi e sostiene l'idea che nei Balcani non debba esistere uno Stato forte». Parla il De Chirico di Belgrado, l'uomo che coi suoi affreschi ha decorato chiese e palazzi dei congressi. Per considerazione unanime, Milic Od Macve è il più grande pittore che i Balcani abbiano espresso nel dopoguerra, e questo gli attribuisce l'autorità del santone. Che si ispiri alla «scuola di Sebenico» è evidente, anche se mentre scuote il casco di capelli grigi ha il vezzo di assumere pose da «guru». «Nel vocabolario dei serbi non esiste la parola "resa". Noi siamo abituati da sempre a resistere, e re¬ sistendo alle pressioni dell'Occidente spingeremo anche molti intellettuali europei a passare dalla nostra parte. Il mondo ci è contro? Non tutto. A combatterci sono anzitutto i cattolici, sotto l'influenza dello slavo Wojtyla; ma greci, romeni, russi... forse anche i giapponesi, col tempo, potrebbero essere al nostro fianco in questo scontro fra culture». Di queste anticipazioni visionarie fa parte anche la previsione di una «Grande Fenditura» che dividerà il mondo dopo una serie di incidenti ato- mici. «La Serbia comunque non deve temere: resterà sempre un grande Paese sicuro». Ma davvero tutto quel che la Serbia riesce a esprimere a sette anni dal Duemila è questo richiamo ossessivo all'epica della «Zadruga», la comunità di beni e di sangue, il monolito di affetti e doveri che nella marca di frontiera delle «Krajne» univa come cemento i contadini-guerrieri, estremo argine alle armate turche? Sette anni fa, Radovan Samardzic, storico fra i più autorevoli, fu tra i firmatari di quel «Memorandum dell'Accademia serba delle Scienze e delle Arti» che si considera il documento-chiave del risveglio nazionale. Un «Cahier de doléan- ces» che firmato da 150 docenti universitari incitava «al rinnovamento e all'esternazione sempre più forte del risentimento nazionale del popolo serbo». Sette anni fa, quel documento prevedeva «reazioni che possono pericolosamente dar fuoco alle polveri». Oggi, il professor Samardzic dice che non lo rifirmerebbe, «ma solo perché finì col risultare un po' confuso». Voghamo provare, professore, a definire una buona volta questo popolo? Chi è serbo, oggi? Chi parla una lingua, o chi si identifica in un sogno? E la Serbia dove finisce, fin dove può spingersi? «Sarebbe un discorso interminabile: oggi, determinare i veri confini della Serbia è quasi impossibile. Ma se devo individuare un tratto caratteristico del sentimento popolare, oggi lo ritroverei nella paranoia...». Eccoci nuovamente al punto così nobilmente trattato dal Freud di Sebenico. Paranoia, frustrazione, rabbia, spirito di rivalsa. E perfino un tranquillo signore come il nostro docente di storia racconta che «i serbi sono sempre stati liberi soldati, agricoltori e commercianti più in gamba degli altri». E' convinto che questa guerra sia stata «provocata dalle altre nazioni, e resa possibile da infiltrati e spie». Si dice certo che il vero nemico della Serbia sia il Vaticano: «Per la Chiesa di Roma, oggi l'Italia è infinitamente meno importante dei Balcani. Qui, come in Montenegro, c'è stata gente che di recente si è conver¬ tita, abbandonando la Chiesa ortodossa». Col distacco dello storico, il professor Samadzic si spinge fino all'ammettere che alcuni pilastri del nuovo sciovinismo derivano da falsi storici, dall'esigenza di adattare antichi simboli all'immaginazione popolare. Prendete le quattro «s» rovesciate che ornano il simbolo delle bande cetniche. Per tutti i nazionalisti, rammentano la massima «Sàmo sloga Srbina Spesava», solo uniti i serbi si possono salvare. Nuovo terrorismo Invece non è così. Quelle quattro «S» (che nell'alfabeto latino noi leggiamo come «C») riproducono un simbolo che si perde nella notte dei tempi. Un acciarino: di quelli che alle unità d'avanguardia consentivano in ogni istante di accendere fuochi di segnalazione. Fin dall'età di Bisanzio, era il segno di distinzione di quelle che oggi si chiamerebbero «truppe speciali». Archeologia? Può essere. Eppure pochi giorni fa il generale Mladic, comandante dell'esercito di Pale, fra la minaccia di un nuovo terrorismo e il fanta sma di una ritorsione atomica, ha fatto sapere al mondo: «Un serbo arrabbiato può provocare catastrofi anche solo con un fiammifero». Strana risonanza, vero? Giuseppe Zaccaria Frasi deliranti: «L'Occidente ci ha imposto un senso di colpa, dobbiamo ribellarci. I croati soffrono di un complesso di castrazione» Qui accanto II presidente serbobosniaco Karadzic. Sopra militari serbi in assetto di guerra. In alto una parata ai tempi di Tito