«Prego per i boss della mafia»

«Prego per i boss della mafia» «Prego per i boss della mafia» Pappalardo: basta sangue, devono convertirsi UN CARDINALE IN TRINCEA PALERMO DAL NOSTRO INVIATO Pappalardo e la Sicilia, il «cardinale di Sagunto» e Palermo bella e terribile. Una vita spesa per «redimere» una società che, dice adesso sua eminenza, non sempre ha saputo recepire i messaggi rivolti agli uomini di buona volontà. Ha l'aria stanca, il cardinale. Appare un po' smagrito e il suo volto tradisce un'ombra di preoccupazione. Lo addolorano certe interpretazioni a buon mercato, le facili allusioni con cui si è cercato di liquidare l'impegno della Chiesa sul fronte della lotta alla mafia, la sua partecipazione col ruolo di «pastore» alla vita di un mondo non sempre di facile comprensione. Amareggiato? Forse, un po'. Ma non lo dice, invita alla speranza e racconta il percorso che ha portato, lui siciliano della provincia di Catania, all'impatto con la più terribile delle piaghe siciliane: quella mafia che si è accanita contro i figli migliori di questa terra offesa e sfregiata. Ringrazia il Papa per il suo autorevole intervento, per la chiarezza del suo monito. Dimostra di non aver mai smesso di amare Palermo. Non si arrende la speranza: una fiducia che gli viene dal calore, dalla vicinanza di numerosissimi cristiani, dai giovani che non più tardi di mercoledì sera affollavano la Cattedrale durante la cerimonia per il processo di beatificazione del cardinal Corredini. «Sono a Palermo da quasi 23 anni - dice quasi a voler ripercorrerli tutti con la memoria - e mi risulta difficile attraversare con il ricordo questo lungo periodo. Ho avuto occasione di svolgervi un intenso lavoro pastorale e di maturarvi anche numerose esperienze che mi hanno orientato a mano a mano in una certa comprensione, sempre peraltro relativa, delle realtà che compongono e governano questa città». Cosa la colpiva, eminenza, della Palermo di quegli an ni? «Rimasi enormemente impressionato dal degrado urbano e dall'incuria nei riguardi del risana mento del centro storico e dei suoi monumenti. Speravo che da un anno all'altro cominciasse al meno il tentativo di una ricostruzione edilizia. Nulla o quasi si è riusciti a fare, né sono state inco raggiate iniziative di privati o di enti non pubblici». E' una critica a chi ha retto la città? «Si può dire che tutte le amministrazioni civiche hanno fallito in quello che doveva essere uno dei principali compiti da svolgere. E bisogna riconoscere che la nostra popolazione è stata sempre trop po remissiva nell'accettare ima tale situazione». Allude anche al problema della mafia? «Poco sapevo della mafia quando venni a Palermo: ero stato assente dalla Sicilia per più di trent'anni. Mi feci una prima idea della sua vastità e complessità dal numero e dalla mole dei volumi della Commissione antimafia che venivano pubblicati e che mi venivano inviati. Strano che tanta quantità di lavoro, di indagini, di scritti, non abbiano dato luogo a quasi nessun decisivo provvedimento». Un silenzio che la indusse ad intervenire direttamente. «In quel tempo pubblicamente si parlava poco di mafia e della sua nefasta influenza. Credetti di dovere in qualche modo contribuire a rompere tale dissimulazione, cominciando a farne aperta menzione in documenti e discorsi. Questo provocava una certa attesa di quanto, di volta in volta, potessi dire, nelle varie occasioni datemi dallo svolgimento del mio ministero. La situazione è andata a poco a poco cambiando e i riferimenti dell'opinione pubblica alla mafia si fecero più aperti quando cominciarono quei delitti cosiddetti "eccellenti". Qualche mia omelia di quell'epoca fece scalpore: anche troppo!». Quello era il cardinale di Sagunto, lei lanciò un accorato monito ai governanti presenti nella Basilica di San Domenico, davanti alle bare del generale Dalla Chiesa, della moglie e dell'agente di scorta. La città, l'Italia si schierò dalla sua parte. «Per una certa azione di stimolo allora svolta, il presidente Pertini volle insignirmi della Gran Croce al merito della Repubblica: è l'unica onorificenza il cui diploma è esposto nel mio studio. Non sono mancati i miei interventi e i miei appelli alle pubbliche autorità, tutte le volte che pastoralmente li ho ritenuti necessari ed opportuni. Naturalmente dovevo stare nel ruolo di Vescovo, né assumere compiti che non mi spettassero. Potevo e dovevo certamente proclamare il Vangelo e le sue esigenze di vera giustizia, e sensibilizzare la comunità cristiana, e in qualche modo anche quella civile, perché reagissero ad ogni forma di passiva accettazione del male e, tanto più, ad ogni possibile collusione o favoreggiamento». Poi, proprio immediatamente dopo l'omelia di quel tragico settembre, qualcuno volle vedere una sorta di «ripensamento», un cambio di registro che rendeva più blanda la denuncia. «E' falso che in questa azione io mi sia affievolito o ritirato. C'è stato chi ha preteso che dovessi dire o fare, in ogni occasione, quello che lui pensava, ma questo non è possibile né giusto. Mi sem¬ bra, anzi, di essere stato puntuale nell'esprimere chiaramente quanto, secondo le diverse circostanze, andava detto. E anche di questo ho avuto autorevoli riconoscimenti, sempre nella prospettiva dei miei doveri di Vescovo e della dimensione religiosa della mia missione». La malevola interpretazione fu forse dovuta alla constatazione che si registrava, in quel periodo, un generale arretramento delle forze sane della Sicilia. «Con il delitto Mattarella, con quello di Dalla Chiesa e gli altri di una purtroppo lunga serie, la situazione di Palermo si è ulteriormente deteriorata, ma ha anche cominciato a manifestarsi, a livello popolare, una ancor tenue reazione all'assalto delle forze criminali e mafiose. Si è anche cominciato a comprendere, o a temere, che ci potessero essere collusioni di certo livello o interessi variamente intrecciati. Chiari richiami ho dovuto, talora, fare alla cosiddetta mafia dei colletti bianchi e alle protezioni che i mafiosi potevano vantare». Dunque, Palermo irredimibile? «Con i delitti dello scorso anno, così destabilizzanti e feroci, si è innescata una reazione popolare, specialmente giovanile, abbastanza considerevole. Emerge una coscienza che esige siano scoperte e fermate le menti e le mani di chi è autore di stragi, dovunque possano annidarsi. I giudici sono chiamati all'arduo compito di scoprire la verità. Nel frattempo la situazione italiana è esplosa con la rivelazione delle varie «tangentopoli» e di una così vasta corruzione, ed anche questo ha contribuito a far meglio intendere e decifrare fenomeni e fatti che non risultavano prima intellegibili». Non c'è stato anche un generale ritardo culturale? «Le Chiese di Sicilia hanno sem- pre svolto, con diversi accenti, la loro fondamentale missione di evangelizzazione e di testimonianza contro i mah dell'Isola. Non tutti, purtroppo, ne intendono, ne accettano, ne assimilano il messaggio. C'è chi si sente e si dice cristiano ma non lo è. La coerenza tra fede e vita non è un fatto scontato, e non solo in Sicilia!». Sta dicendo, eminenza, che la Chiesa non ha nulla da rimproverarsi? «Occorre intendere che, in ordine alla formazione religiosa e civica dei soggetti, non ci si può riferire soltanto a ciò che fa la Chiesa, e per essa il Papa, i Vescovi, i sacerdoti, i religiosi, ma occorre riferirsi anche ai laici tutti, alle famiglie, alla scuola, all'efficienza degli enti pubblici e di tante realtà sociali che oggi vengono considerate "agenzie educative": la stampa, la radio, la televisione. Tutti dobbiamo chiederci se abbiamo fatto il possibile, e il meglio, per educare i giovani e per dare sempre buon esempio nella società. E' un esame di coscienza che va fatto da tutti, sinceramente ed umilmente. Noi Vescovi di Sicilia non abbiamo mancato di dire ciò, chiaramente, nel comunicato finale della nostra Conferenza tenutasi verso la metà di aprile». Eppure è parso che il Papa, venendo in Sicilia e parlando con parole dure, abbia inteso chiedere più vigore nell'azione quotidiana della Chiesa. «Il Papa ha certamente fatto una forte e chiara denunzia dei mali della Sicilia e della criminalità mafiosa ed assassina. Questo tutti lo hanno percepito, ma non so se hanno anche notato ed accolto tutte le altre riflessioni che egli ha fatto nei 17 discorsi pronun ziati, sulla necessità di vivere seriamente la dimensione della fede, di credere in Dio e di accettare il Vangelo di Gesù Cristo, di seguire le norme della morale, come sono iscritte nella coscienza e come sono evidenziate nei comandamenti di Dio. Non è moralismo questo, ma è condizione perché si sia veramente e totalmente onesti. Mi pare proprio che le parole del Papa riguardanti la dimensione spirituale della vita, la preghiera, il rapporto di amore che si deve avere con Dio e con i fratelli, non sono state messe in rilievo come le altre». Qual è il <(fardello>> che Giovanni Paolo TI lascia alla Chiesa di Sicilia, proprio in questo momento, mentre cioè si commemorano Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e tutti i martiri assassinati dalla mafia? «Dopo i discorsi del Papa le Chiese di Sicilia non hanno che da proseguire il compito che loro spetta e prepararsi con maggior impegno al grande Convegno ecclesiale regionale indetto già per il prossimo mese di novembre. La parola del Papa ci incoraggia certamente, così come dovrebbe accadere per tutti i cristiani e per tutti gfi uomini di buona volontà». E gli altri? Quelli che prevaricano e uccidono? «Non possiamo che pregare desiderando che si convertano e vivano». Un'ultima domanda, eminenza. Ha qualche ricordo di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino? «Non ho conosciuto personalmente né il giudice Falcone né Borsellino. Ho incontrato quest'ultimo soltanto quando nella Chiesa di San Domenico commemorava l'amico trucidato e si esprimeva con parole di grande dignità, fede e coraggio. Era ben consapevole di quanto lo attendeva. Ricorderemo insieme, il prossimo 21 giugno, questi martiri della giustizia e le vigili scorte che li accompagnavano». Francesco La Licata «Dopo i delitti dello scorso anno la gente ha reagito E anche i magistrati non sono più soli» «Abbiamo fatto tutto per batterei clan? La Chiesa da sola non può vincere» «In questi 23 anni ho visto la città che rischiava di morire Il degrado umano e sociale è impressionante, si fa poco» «In questi 23 anni ho visto la città che rischiava di morire Il degrado umano e sociale è impressionante, si fa poco» Un momento dei funerali del generale Dalla Chiesa, ucciso per ordine delle cosche siciliane In alto a sinistra. Bruno Contrada, ex ufficiale del Sisde accusato di collusione con la mafia. A fianco, il giudice Giovanni Falcone e, sopra, Paolo Borsellino