Figlio impara il'68 da papà

Provocazioni di un americano Provocazioni di un americano Figlio, impara il '68 da papà I L mio principale ricordo del fatidico maggio "68, di cui si parla tanto, nel 25° anniversario, non è eroico, riguarda un appuntamento dentistico che non comportava neppure l'uso del trapano. Soffrivo di frequenti dolori, e il dentista mi aveva visitato senza trovare niente: «Si tratta di tensione muscolare. Non sarai mica sotto stress?», mi domandò. Non avevo ancora 22 anni, mi ero sposato otto mesi prima con la ragazza che amavo e ci eravamo trasferiti a Toronto, città vitale e civile; avevamo pochi soldi, ma il livello di stress mi sembrava bassissimo. Mentre rincasavo, però, mi diedi dell'imbecille. Q eravamo trasferiti nel Canada dagli Stati Uniti perché mi ero rifiutato di fare il servizio militare: la guerra del Vietnam imperversava, ero stato chiamato alle armi, ma ero contrario a ciò che il mio Paese stava facendo. Agenti dell'Fbi erano andati dai miei parenti e dai vicini per raccomandare loro di denunciarmi se fossi ricomparso in zona. La maggior parte degli americani, con Johnson, Rusk e McNamara, sarebbero stati contenti di vedere persone come me in galera, se non fucilate come traditori. E poi andavo dicendo che non avevo motivo per provare lo stress! Data la situazione in cui mi trovavo, non c'è da meravigliarsi che, come molti americani miei coetanei, non capissi granché delle proteste studentesche in Europa. Non vi ero mai stato, non sapevo niente delle realtà quotidiane europee, e l'idea di manifestare, anche violentemente, per cambiare i curricola scolastici o il sistema universitario, o per dimostrare di avercela con il Potere mi sembrava frivola; se avessi conosciuto allora la poesia di Pasolini sui fatti di Valle Giulia, mi sarebbe piaciuta molto. Quegli studenti vivevano forse come vivevano molti dei neri e altri emarginati nelle nostre città americane? Mi sembrava poco probabile. Né mi convincevano le proteste europee, genericamente antiamericane, contro la guerra del Vietnam. Noialtri, la nostra protesta la provavamo sulla, pefle, e credevamo d'intravedere una certa duplicità negli atteggiamenti dei giovani contestatori a Est dell'Atlantico, che ammiccavano all'Urss da dietro le gonne di Mamma America. Pochi anni dopo, girando l'Europa, cominciavo a capire che la realtà era molto più complicata. II sistema politico italiano non era un circo equestre simpaticamente buffo come si credeva negli Stati Uniti, ma un capolavoro di stasi, di una non-funzionalità endemica e voluta, forse anche dai leader americani. Il sistema d'istruzione nei licei e nelle università era più baronale, elitario e irrigidito in molti Paesi europei che da noi, e il paragone che Salvemini aveva abbozzato diversi anni prima, dopo essere stato professore all'Università di Harvard, funzionava ancora: a differenza delle matricole italiane, scrisse, quelle americane arrivavano all'università «ignoranti de omnibus rebus et de quibusdam aliis», ma nelle università americane non c'erano «professori che non facevano lezione per andare in giro a raccattar denaro come medici o avvocati, o per fare il deputato o il senatore», e le biblioteche erano fatte «per gli studiosi e non per gli impiegati». Insomma, i motivi di protesta non mancavano. Ma se era facile capire la diffidenza che gli Stati Uniti, con la loro politica estera che mescolava una generosità non interamente altruistica con precisi tipi di ingerenza, provocavano nei giovani europei, dall'altra non riuscivo a capire come questi potevano lasciarsi soggiogare dalla cultura popolare-commerciale americana, dalla tv e dal cinema più superficiali, o dal rock. A me il rock sembrava una forma di ribellione non politico-culturale ma da prima adolescenza, semplicistica, qualcosa che avrebbe dovuto sparire con l'acne, e che serviva soprattutto ad arricchire gente che di progressi umanistici se ne infischiava. Persino le protest songs di Bob Dylan e consimili mi sembravano imbarazzanti, sia perché dipingevano un mondo diviso tra buoni e cattivi, senza mezzetinte, sia perché comunicavano l'idea che «noi stiamo dalla parte giusta», che è il credo più pericoloso per chiunque abbia voglia di vedere le cose in tutta là loro complessità piuttosto che ridotte a formule o a slogan. Dopo tutto, la protesta europea era forse più vicina a quella americana di quanto non credessi. Eppure, malgrado tutte le mie titubanze, provo anche molta ammirazione per i sessantottini (quelli che agivano intelligentemente e in buona fede), le cui reputazioni sono state così duramente malmenate in questi ultimi anni. Il nostro secolo morente è stato testimone dei più grandi progressi sociali ma anche delle più grandi sciagure sociali che la storia umana ricordi, e questo terrificante paradosso ha fatto di me (come di tanti altri) non un qualunquista né un cinico, ma uno scettico capace di «fare politica» solo quando la situazione è diventata insostenibile, quando, cioè, sento il bisogno di urlare «no!». Mi rendo conto però che anche i progressi, e non solo le sciagure, sono stati realizzati grazie a persone capaci di credere in qualcosa, capaci di urlare «sì!». Sicché spero che i figli dei sessantottini abbiano imparato qualcosa dai genitori. Senza gente come loro, siamo perduti. Harvey Sachs

Persone citate: Bob Dylan, Harvey Sachs, Johnson, Mamma America, Mcnamara, Pasolini, Rusk, Salvemini

Luoghi citati: Canada, Europa, Stati Uniti, Urss, Vietnam