Gobetti uomo del Sud di Piero Gobetti

Gobetti uomo del Sud FOGLI DI BLOC-NOTES Gobetti uomo del Sud All'attacco del parassitismo DUE dicembre 1924. Siamo agli epiloghi della battaglia antifascista, nel Parlamento e nel Paese. 1 La secessione aventiniana ha i giorni contati: la crisi dei partiti storici aiuta, sia pure indirettamente, la riscossa del fascismo e l'imminente 3 gennaio dopo il terremoto del delitto Matteotti (la dittatura è stata salvata dallo pseudo-costituzionalismo della Monarchia). Sulla Rivoluzione liberale di Gobetti, ogni giorno di più boicottata dalla autorità di pubblica sicurezza, esce l'«Appello ai meridionali» steso da Guido Dorso e firmato da diversi esponenti del meridionalismo liberale e rinformatore, come Tommaso Fiore. Evidente, attraverso il linguaggio lampeggiante di Dorso, la derivazione da Salvemini; contrapposta una volontà di lotta e di iniziativa a quella che appariva come la visione di Giustino Fortunato, virilmente rassegnata nel suo pessimismo. E' la questione meridionale sentita come «questione italiana», anzi come «tutta la questione italiana». «I liberali del Settentrione termina l'appello accorato - debbono fiancheggiare quest'opera rifiutandosi di prestare qualsiasi aiuto a quelle oligarchie parassitarie che noi imprendiamo a combattere». L'impegno meridionalista di Gobetti coincide con la più accentuata cesura fra le due Italie. Nel dicembre 1924 c'è poco da salvare del vecchio Stato, dei vecchi partiti. Ed ecco una nota di messianesimo democratico che domina le parole di Dorso ma che riflette anche l'ispirazione fondamentale di Gobetti. «Combattere oggi e sempre le deviazioni dei partiti storici, svelarne i sottintesi e gli equivoci, incanalare le idee verso correnti la cui serietà non sia discutibile, provocare, se occorre, anche la formazione di nuovi partiti, fino a quando le oligarchie anti-meri dionali non siano battute: ecco il nostro compito». Nel giugno 1925 Gobetti sarà l'editore della Rivoluzione meridionale di Guido Dorso, con quel sottotitolo ancora intriso di vibrazioni orianesche, «Saggio storico-politico sulla lotta politica in Italia». Dorso aveva nove anni più di Gobetti (era nato nel 1892) ma si muoveva come un allievo della Rivoluzione liberale, come un militante di quella nuova fede nella libertà e nell'Italia. La prima pagina di quella Rivoluzione liberale, con l'appello ai meridionali, riprodotta in gigantografìa, è stata scelta come bandiera per il convegno su «Gobetti e gli intellettuali del Sud», svoltosi nei giorni scorsi all'Istituto dell'Enciclopedia Treccani di Roma, sotto la duplice ispirazione della gloriosa «Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno» (presidente Cifarelli) e dell'instancabile Centro Gobetti di Torino (presidente Bobbio). Un convegno ricco di voci anche giovanili e di apporti documentari: Polito, Scavino, Craveri, Griffo, Paolino, Quagliarello, Ganglio, Jannazzo, Padulo, Onorato, Borghesi, La Sala, Nassisi, Radiconcini e Vittorio Fiore, testimone del messaggio di suo padre Tommaso, firmatario di quel manifesto. Ed ecco riemergere, dal convegno, tutti i volti degli interlocutori meridionali di Gobetti. Croce prima di tutti (il giovanissimo Piero si è recato a Napoli per presentare al filosofo la moglie, nel gennaio 1923). E poi Nitti: sarà l'editore di alcuni dei fondamentali libri dello statista dopo che perfino la casa Bemporad - con quell'insegna ebraica gli chiuderà le porte in faccia. E poi Giustino Fortunato, punto di riferimento inalterabile pur nella differenza delle posizioni. E poi Salvemini e Sturzo e Zanotti Bianco e Giuseppe LombardoRadice, il grande pedagogista. La nuova posizione meridionalista di Gobetti non sfuggì neanche all'occhio implacabilmente vigile di Mussolini. Il primo giugno 1924 il dittatore invierà di suo pugno un messaggio al prefetto di Torino: «Mi si riferisce che noto Gobetti sia stato recentemente a Parigi e che oggi sia in Sicilia»: con l'aggiunta di vigilare «per rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore di governo e fascismo». E il viaggio a Palermo nel maggio del '24 servirà a coordinare le linee dell'opposizione an- tifascista, non ancora sgominata nonostante la vittoria del listone. L'appello ai meridionali si con^ elude con l'impegno a presentare in ogni numero una pagina dedicata alla «Vita meridionale», «con i più importanti collaboratori». E' un impegno che sarà assolto con sufficiente regolarità nonostante i tempi e le continue interruzioni del quindicinale; ma è significativo che il primo articolo sia firmato da un altro autentico intellettuale dell'antifascismo, e collaboratore della Rivoluzione liberale e autore della Casa Gobetti, il napoletano Mario Vinciguerra, proprio sul tema «Questioni meridionali e questione napoletana». Vinciguerra deve essere aggiunto al «pantheon» degli amici meridionali di Gobetti. E in un prossimo convegno deve essere rimesso al suo posto. Si può parlare di Gobetti meridionalista? Come Einaudi, Gobetti riteneva che l'intrusione dello Stato nell'economia fosse destinata a danneggiarla anziché favorirla. Non solo, ma l'intervento dall'alto dava vita ad una nefasta protezione a gruppi ri stretti, a tutto detrimento degli interessi della collettività. E su questo punto essi convenivano con la denuncia della politica economica giolittiana formulata da Salvemini: l'azione del governo aveva favorito una minoranza di industriali e operai del Nord a svantaggio del Mezzogiorno. «Nel nostro secolo - scriveva Gobetti - il primo insegnamento dell'industria dovrebbe consiste re nella dimostrazione di uno spirito e di una necessità non grettamente nazionale, ma euro peo e mondiale... Invece la nuova economia italiana nel Nord proseguiva polemicamente - sor geva come industria protetta, rinnegando ogni senso di di gnità». Tali effetti erano aggravati dal fatto che «l'iniziativa del Sud, su bito dopo il '61 connessa col bri¬ gantaggio e con l'eredità del vecchio regime, aveva reso impossibile il formarsi di condizioni obiettive» in grado di rompere la perversa pratica di «parassitismo e beneficenza», secondo quanto auspicato da Jacini e da Fortunato. Era il fallimento, insomma, di quel «liberalismo dei conservatori» che a giudizio di Gobetti avrebbe potuto avere la sua sede storica nell'economia del Mezzogiorno. Il giolittismo aveva iniziato il Paese ad «un'ascesi di ordinaria amministrazione e di serietà economica», ma poi era intervenuta la guerra ad interromperla, quella guerra che pur «aveva segnato per i contadini del Mezzogiorno la prima prova di vita unitaria». Ecco spiegato quel solco che andava sempre più approfondendosi fra il Sud e il Nord, i due poli che riuscivano a stare insieme solo grazie ad una «alternativa di favore». Mentre era chiaro che «un'industria nata liberisticamente non sarebbe stata l'antitesi della vita agricola, ma l'avanguardia». Il fascismo aveva poi aggravato le cose. Antifascista di istinto, Gobetti vi vedeva «l'autobiografia della nazione». Per quanto consapevole, da buon lettore e continuatore di Cattaneo, delle insufficienze morali della nostra composizione unitaria, egli non riusciva a sperare in una trasfor mazione morale degli italiani. E vedeva nel fascismo, pertanto, non un evento di rottura ma di continuità con la precedente storia italiana. Quella continuità quasi fisica, come avrebbe constatato il suo maestro ed amico Giustino Fortunato, fra fascismo e prefascismo, fra camorra democratica e varie e diverse mafie squadristiche. «Il Mezzogiorno - prevedeva infatti il grande meridionalista non disturberà il fascismo. Servirà plebeamente Mussolini. Come ha sempre servito tutti, salvo a darne la colpa agli spagnoli e ai Borboni, quintessenza del nostro sangue e della nostra carne». Cosa fare, allora? Certo, anche per il Mezzogiorno doveva valere in primo luogo il principio del far da sé, dell'utilizzare tutte le proprie energie fisiche, intellettuali e morali per operare il riscatto. «Tutte le nostre simpatie sono per le libere iniziative che risalgono al sacrificio dei singoli e alla genialità di uomini che non dovettero ricorrere all'aiuto del politicantismo». Ma nella visione di Gobetti ciò non sarebbe stato sufficiente. Il sentimento di rassegnazione e di «aspettazione messianica» che caratterizzava le plebi rurali (contrapposto al «liberalismo d'avanguardia» alimentato dall'industria nel Nord) le rendeva ai suoi occhi incapaci di un'iniziativa politica. Né le classi medie avevano mai mostrato «alcuna attitudine all'eroicità e al sacrificio politico». Non restava dunque che un'impostazione liberistica del tutto nuova dell'economia nazionale che, coincidendo con la lotta operaia contro lo «spirito parassitario dell'industrialismo italiano», favorisse lo sviluppo e la modernizzazione dell'Italia. Ecco che il cerchio si chiudeva e il problema meridionale, ereditato dal Risorgimento incom piuto, trovava la sua soluzione unitaria appunto in quella rivo luzione liberale che al Risorgi mento era mancata. Giovanni Spadolini Piero Gobetti

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