Appuntamento con la Piovra di Francesco La Licata

appuntamento con la Piovra Dall'infanzia a Capaci: le sorelle raccontano la solitudine e il coraggio del giudice ucciso un anno fa appuntamento con la Piovra APACI, 23 maggio 1992: Giovanni Falcone, con la moglie e gli agenti della scorta, muore dilaniato da una tremenda esplo¬ sione sull'autostrada. A un anno di distanza, esce domani da Rizzoli Storia di Giovanni Falcone. Lo ha scritto Francesco La Licata, giornalista della Stampa legato da una lunga amicizia al giudice ucciso dalla mafia, che si è valso delle testimonianze delle due sorelle di Falcone, Anna e Maria. Anticipiamo una scelta di pagine, dalla giovinezza alla fine. Il rapporto con il padre Cominciò con l'ingresso al liceo classico - era il 1954 - il primo vero cambiamento di Giovanni Falcone. Scoprì presto l'interesse per altre concezioni della vita, imparò a sfuggire ai dogmi e a coltivare il dubbio. Una metamorfosi sicuramente provocata dall'influenza di Franco Salvo, professore di storia e filosofia al liceo «Umberto I». Un insegnante inconsueto per quei tempi. Così Falcone scoprì il materialismo storico, il marxismo, si appassionò allo studio critico della storia. Guardò con altri occhi alle dinamiche sociali. E cominciò ad andare sempre meno frequentemente alla messa della domenica con la madre. Fu il primo vero distacco dal guscio materno. Anna e Maria: «In famiglia ci accorgemmo del cambiamento, anche se nulla nei comportamenti di Giovanni era mutato. Rispettoso come sempre, ubbidiente e studioso. Se ne accorgeva di più la mamma: per lei la religione era molto importante e qualunque accenno di critica le suonava un po' blasfemo. Quello fu il periodo in cui Giovanni rafforzò il suo rapporto col padre, che era molto tenero con lui e spesso coniava dei vezzeggiativi, come "biddicchiu", e glieli affibbiava. Sì, è vero, il loro rapporto risentiva dell'eccessiva differenza di età, ma si volevano un gran bene. Anche alla mamma era attaccato. Però, con lei era un po' più freddo. Chissà, forse dipendeva dal fatto che toccava alla mamma il ruolo più ingrato: era lei che doveva spronarlo a studiare sempre di più, anche se non ce n'era bisogno». Una vita blindata Faceva paura la macchina da guerra che si muoveva attorno a Falcone. Quattro auto di scorta, gli agenti coi giubbetti antiproiettili e le mitragliette, le sirene e i lampeggiatori, le «sgommate» sulle corsie preferenziali. E l'elicottero, assordante, quasi poggiato sui tetti dei palazzi di via Notarbartolo, avanscoperta di un piccolo esercito agguerrito. Falcone in ascensore con tre agenti, mentre altri due salivano a piedi e lo precedevano al piano. Se si andava a trovarlo, ci si doveva sottoporre a controlli accuratissimi. I palermitani guardavano attoniti alla nascita di quel «fenomeno». La città malignava, le invidie prendevano corpo, i commenti acidi comin- ciavano ad essere lo sport preferito dei garantisti dell'ultima ora. No, non era amore quello di Palermo per Falcone. Al punto che, quasi vergognandosi per «tanto fastidio arrecato alla comunità», il giudice non potè fare a meno di ridimensionare ulteriormente i suoi spazi di libertà (...). Ne risentì ancora di più la sua privacy: la notte si decise a far montare la guardia dietro alla porta di casa, una sorveglianza che ormai abbracciava l'intera durata delle ventiquattro ore. E lui rinunciò al mare. Addio irruzioni a sorpresa allo stabilimento La Torre, a Mondello, l'unico posto che, dal punto di vista della sicurezza, garantiva qualche spiraglio di tranquillità. Il nuoto era rimasta praticamente l'unica «trasgressione» alle regole della vita blindata. Scelse di ripiegare sulla piscina comunale, con difficoltà perché doveva aver cura di andare in ore non di punta. E allora o si presentava praticamente all'alba o a sera tardissima. E sempre in momenti diversi. Smise anche di andare al cinema. Decisione obbligata, visto che ogni volta dovevano «liberare» quattro file di poltrone per fargli attorno una specie di cordone sanitario. Apprezzò l'utilità dell'invenzione di videoregistratori e «cassette». Non parliamo, poi, dei ristoranti. Ci fu un periodo che la gente si alzava e cambiava tavolo. Maria: «La cosa che gli pesava di più era la distanza dalla gente. Era nell'isolamento più totale, gli mancava il contatto con la realtà, con le stesse "voci" della città, quel flusso di notizie particolari che ti fanno capire tante cose». Isolato a Palermo Gli americani già lo amavano, il procuratore distrettuale di New York, Rudolph Giuliani, ce lo invidiava. Eppure... eppure nel «palazzo» si sussurravano.tante cose. «E' comunista», «Ma chi si crede di essere?», «Vuole arrestare tutta l'umanità». La «vecchia guardia» vigilava attentamente. Si preparava il canovaccio che avrebbe fatto di Giovanni Falcone un «corpo estraneo» da espellere (...). A un certo punto, tentarono di mettere Falcone sotto accusa per via della sua vita privata. Gli rimproverarono la relazione con Francesca, ben sapendo che era un legame che non poteva essere «ufficializzato» per il semplice fatto che entrambi erano in attesa del divorzio. «Un attentato Forse è ferito» Maria: «Quel pomeriggio doveva venire a casa mia, lo aspettavo, eravamo d'accordo che sarebbe venuto (...). A un certo punto suona il telefono: è una mia carissima amica con cui dovevamo vederci la sera a casa di altri amici. Mi fa domande strane, mi chiede se l'appuntamento è confermato, insomma si comporta in modo insolito. Passano pochi minuti e arriva un'altra telefonata. Questa volta risponde mio marito: lo guardo in faccia, capto qualche parola. Automaticamente mi ricordo che Giovanni è in ritardo. Mi torna in mente la telefonata della mia amica e penso: è di nuovo lei, deve essere successo qualcosa. La faccia di mio marito è uno specchio: "E' accaduto qualcosa, è vero? Riguarda Giovanni?". Mi ripete la bugia che gli hanno raccontato: "Un attentato, ma non è grave. Forse è ferito... leggermente. Anche Francesca". (...). «L'Ospedale Civico è una bolgia infernale: cerco facce amiche, qualche conoscente che possa darmi notizie. Col cuore in gola mi avvicino verso un gruppo di gente. Sembrano investigatori: loro sapranno, penso, se Giovanni e Francesca sono ancora vivi. Non faccio in tempo a chiedere perché metto a fuoco la faccia sconvolta di Alfredo Morvillo, il fratello di Francesca, che mi corre incontro stravolto. Non c'è bisogno di parole per capire». La giornata di venerdì, fino a sera, Giovanni l'aveva trascorsa a mettere ordine nelle sue cose. Aveva utilizzato la macchina «tritacarte» per distruggere alcuni documenti che non gli servivano più. Chi gli è stato vicino è rimasto molto impressionato da tanta meticolosità. Presagiva la fine? Forse è più consolante pensare che si preparasse psicologicamente a lasciare quell'ufficio, in vista della procura nazionale che, chissà per quale convinzione, sentiva vicina. Nulla fa pensare che temesse: non avrebbe portato con sé Francesca, non l'avrebbe attesa per un giorno e mezzo. Anzi, il ritardo della moglie sarebbe stata la scusa ideale per poter viaggiare da solo, salvaguardandola così senza metterla in apprensione. Invece ha spostato più volte la partenza, si è mosso con estrema tranquillità, trovando persino la voglia e il tempo di fare un salto a casa per cucinarsi un piatto di spaghetti. E quando ha lasciato la sua stanza si è rivolto alla segretaria salutandola in un modo che non lasciava trasparire timori: «Io vado, ci vediamo lunedì». Francesco La Licata «Soprattutto gli pesava la distanza della gente» Maria Di Fresco Falcone sorella del giudice assassinato Da sinistra Rudolph Giuliani e Paolo Borsellino. Sopra Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo. Nella foto grande la strage di Capaci

Luoghi citati: Capaci, Falcone, New York, Palermo