Le figurine recitanti di Salvator Rosa

S Esposte a Torino le incisioni del maestro napoletano, che fu anche poeta satirico e attore Le figurine recitanti di Salvator Rosa Gran teatro secentesco con soldati e pitocchi Una vena malinconica che ricorda Shakespeare S TORINO ONO molte settimane che me la vado spassando in intagliare acque forti», scriveva Salvator in quel di Firenze nel Il maestro secentesco - Rosa, 1640. grande paesaggista, poeta satirico, attore e teatrante - iniziava allora un'attività di incisore, di cui dà ora conto una bella mostra all'Arte Antica di Silverio Salamon in Via Volta 9, accompagnata da un catalogo dell'opera completa, con 105 numeri. Giovan Battista Passeri, amico e biografo del Rosa scrisse che, essendo giunti «a Firenza», il maestro, «che non poteva durare, ancorché breve tempo, senza esercitare il suo spiritoso talento, s'invogliò di intagliare all'acqua forte». La narrazione si riferisce al primo gruppo di rarissnne stampe - paesaggi sulla linea classico-romantica del Rosa pittore, vicini a Claude Lorrain - di cui tre, fra cui un esemplare unico, acquaforte; ma, ' come spesso in lui, tralucono motiva¬ zioni più fonde e compiesse: «Ho fatto due altri rami grandi... e questi sono i miei trattenimenti, essendo divenuto di maniera malinconica, che ne ho pietà da me medesimo». E' un modo di porre e di porsi da teatrante drammatico, pensando ad esempio quanto il «malinconico» sia carattere peculiare nel teatro di Shakespeare. E', quello del «carattere», un punto peculiare per la prima grande e più nota serie delle Figurine o Capricci o Diverse figure, incisa nel 1656-57 e per cui è sempre stato proposto il confronto con le anteriori serie, estrinsecamente affini, di Callot e di Stefano della Bella. Sono certamente, le une e le altre, figure «recitanti» (esplicitamente, da cantambanchi, da antenati della Commedia dell'Arte, quelle di Callot), pitocchi, soldati mercenari e «bravi» di ogni tipo e nazione, nel gran teatro del Seicento di strada e di campagna, da Occidente a Oriente. Ma la recitazione di Callot e di Della Bella è grottesca, «cari¬ cata», pulcinellesca, mentre quella del Rosa è più intrisa di sensi morali, di melanconie, di rapporti socratici. Preannuncia le incisioni maggiori del 166164 con i loro versi latini di tono alto e l'impostazione nobile - di rivalità con il quadro di «grande» pittura - delle storie di Democrito, di Diogene, di Platone. Che poi queste Figure diverse abbiano offerto quanto quelle di Callot, e forse di più, un ricchissimo repertorio ancora nel '700 (le possiamo ritrovare colloquiami in mezzo alle rovine romane dei Capricci alla mostra di Panini; e maestri decoratori valsesiani come gli Orgiazzi le copiano in disegni a Varallo) è prova della loro efficacia iconografica. Assai più conta che esse siano presenti certamente al Tiepolo incisore e probabilmente a Goya. Alla fine, il tipo di quadro emblematico, filosofico, «eroico» che era la massima aspirazione del pittore-poeta costretto nella camicia di Nesso del paesista e battaglista, si trasferisce anche sulla grande lastra, fino all'orgoglioso azzardo del Genio di Salvator Rosa, il cui cartiglio proclama la sfida sprezzante del pittore alla ricchezza e alla morte. La mostra coincide con una stagione particolarmente felice per la grafica del Rosa. Un'altra mostra di analogo tema, che aveva avuto luogo nel Castello di Barolo alla fine dell'anno scorso, a cura di Olimpia Theodoli, con un bel saggio in catalogo di Marco Vallora, è attualmente aperta in Castel sant'Elmo a Napoli e si concluderà a partire dal 18 giugno all'Accademia Carrara di Bergamo. Marco Rosei Salvator Rosa, «Il pastore», acquaforte e puntasecca del 1660-61

Luoghi citati: Barolo, Bergamo, Firenze, Napoli, Nesso, Torino, Varallo