«Quella mia strage inutile»

Il terrorista racconta per la prima volta l'attentato del 17 maggio 73: volevo vendicare Pinelli LA BOMBA DI MILANO Il terrorista racconta per la prima volta l'attentato del 17 maggio 73: volevo vendicare Pinelli «Quella mia strage inutile» L'anarchico Bertoli, vent'anni dopo ISOLA D'ELBA DAL NOSTRO INVIATO L'appuntamento con Gianfranco Bertoli, 60 anni appena compiuti, è per le 10,45, carcere di Porto Azzurro, dove sta scontando l'ergastolo. Vent'anni fa, il 17 maggio 1973, a questa stessa ora, vicino alla Questura di Milano, Bertoli l'anarchico stava buttando giù il suo ultimo cognac prima della strage. Compare in fondo al corridoio, alto, inagrissimo, dinoccolato. In 20 anni non ha mai rilasciato un'intervista. Ha i capelli e la barba bianchi. E' un vecchio, a dispetto delle foto di allora che ne hanno perpetuato all'infinito la giovinezza. Solo gli occhi non sono cambiati: celesti, chiarissimi, veneziani. Con quegli occhi, alla fine della sua prima vita, aveva calcolato la traiettoria della bomba a mano Mark 2 di fabbricazione israeliana - 720 grammi di ferro e esplosivo, 48 scaglie, 4 secondi tra l'innesco e lo scoppio - che lanciò contro il portone della Questura, dove si scopriva il busto commemorativo del commissario Luigi Calabresi, ucciso un anno prima. Quel giorno è un ricordo in bianco e nero. Mariano Rumor, ministro degli Interni, è appena andato via con la sua scorta, la cerimonia è conclusa, Bertoli arriva in ritardo, ma non lo sa: «Ho visto molti uomini in divisa - voce metallica, accento veneto, dita intrecciate e pensai che stavano per uscire le autorità. Vidi un ufficiale che teneva i guanti in una mano e li batteva sull'altra. Mi fu odioso. Lanciai». Ore 10,57. La bomba compie la parabola, cade, qualcuno la allontana con un calcio istintivo verso il muro dove si accalca la gente che aspetta di entrare in Questura. Esplode. L'aria si riempie di grida, l'asfalto di sangue: 4 morti, 46 feriti. «Non ricordo nulla dell'esplosione, ma ricordo il silenzio lunghissimo che l'ha preceduta, quando la bomba è caduta per terra con un piccolo rumore metallico. Ricordo lo sguardo terrorizzato del poliziotto accanto a me che mi ha guardato immobile durante quell'interminabile silenzio e poi le sue mani che mi afferrano il collo e altre mani, altre voci, che mi vengono addosso, mi stritolano, mi travolgono e io che mi ritrovo quasi nudo, trascinato dentro alla Questura e allora sì, le sento le urla, i pianti, i lamenti, l'odore dell'esplosione e del sangue anche se poi mi accorgo che il sangue è mio, mi cola dalla faccia, mi riempie la camicia. «Penso: mi uccideranno, ho compiuto il mio gesto, ci sono riuscito, ho vendicato Pinelli e ora morirò. Sì, sarebbe stato meglio così. Invece sono passati vent'anni, tutto svanisce, io, la mia storia, la mia memoria, ma il dolore no, si solidifica, si allarga, mi sfianca. Il mio è stato un gesto atroce. Folle. Inutile». Gianfranco Bertoli abita da vent'anni dentro a se stesso. Studia Spinoza, traduce dall'ebraico antico la Bibbia, legge Rimbaud, calcola equazioni matematiche, scrive saggi sull'anarchismo americano. Manda un cruciverba al mese alla rivista «A». Niente parenti, niente colloqui. Ha vissuto la sua seconda vita dentro alle carceri speciali di Nuoro, Cuneo, Pianosa, Asinara, Ascoli Piceno. Da dieci anni è a Porto Azzurro. Negli ultimi quattro è uscito 8 volte in permesso. Un paio di volte è andato a Pistoia da un compagno anarchico conosciuto per corrispondenza. Le altre da un ex rapinatore con cui ha condiviso la cella e che ora si è sposato, vive qui a Porto Azzurro, vicino alle mura di Forte San Giacomo. Dice: «Ho pagato e continuerò a farlo. Anche se mi concederanno la semilibertà, dentro di me, resterò un detenuto. Il carcere ti abitua a una vita senza scopo e l'infezione continua a mangiarti anche quando sei fuori. Il mio giudice è d'accordo a darmi il lavoro esterno, mi assumerebbe una cooperativa, ma adesso ci sono nuovi intoppi, nuove burocrazie. Io non chiedo niente. Non mi vede? Sono un povero vecchio, troppo pigro anche per suicidarmi. O forse troppo vile. In compenso fumo 4 pacchetti di sigarette al giorno, ho un enfisema, sono malato di fegato, soffro di anoressia, la morte verrà da sé». Ci pensa mai? «Sì. Un poeta spagnolo ha scritto: non si è mai troppo giovani da non poter essere morti domani mnal«dasim«ilmecvcqvCsIHgncvnlqc«nzs«HccDI«RcèssmNiscegltdszvpctagnns mattina e mai tanto vecchi da non poter vivere sino al prossimo anno. La morte è l'incertezza, ma la mia vita è stata una tortura». Lei ha dato la morte istantanea. «Lo so, l'ho data con un gesto. Vede, io allora pensavo che fosse un atto necessario quello di ribellarsi e uccidere. E invece era solo imperdonabile». Si ricorda come cominciò, in quale momento? «Cominciò con la morte di Pinelli, il 16 dicembre 1969. Lo seppi mentre leggevo un libro su Sacco e Vanzetti e proprio il brano in cui l'anarchico Salsedo cade o viene buttato dalla finestra di un commissariato di New York. Da quel momento, come tanti, ho covato solo odio per il commissario Calabresi. Quando seppi che era stato ucciso, nel 1972, stavo in Israele in un kibbutz vicino' a Haifa. Provai rabbia e anche vergogna per non averlo fatto io, l'anarchico individualista che si sacrifica per il riscatto di tutti. Dovevo fare qualcosa... Pensai che nel giórno del primo anniversario lo avrebbero commemorato e che quel giorno ci sarei stato anch'io». Lei per tanti anni è stato il «sedicente anarchico», il (eprovocatore», il «fascista travestito». «Per certi giudici lo sono ancora e nel gioco di specchi dell'informazione continuano a tornare falsità già smentite». Il sostituto procuratore Antonio Lombardi sta indagando sui suoi collegamenti con la Rosa dei Venti. «Ma sì, che indaghi, che continui. Ho smesso di provare odio o rancore per chicchessia. Tutti i fili che si sono voluti trovare tra me e Amos Spiazzi o con l'eversione nera non hanno mai portato a niente: non sono mai stato fascista. A me basta che il movimento anarchico lo abbia riconosciuto». Quanti anni ci ha messo il movimento? «Tanti, ma era comprensibile. Io ero davvero un poco di buono, avevo precedenti per furto, ero un bidonare vivevo di truffe, dormivo al dormitorio pubblico di Mestre, e poi un individualista è fuori da tutto, incollocabile...» Si disse che lei era uno strumento della strategia della tensione. «I giudici e l'informazione si servirono di me, perché a quei tempi non si ammetteva il terrorismo di sinistra e serviva il pericolo fascista. I fascisti mettevano le bombe; Bertoli mette la bomba, dunque è fascista». Che cosa pensa di quegli anni? «Che il pericolo fascista era volutamente sovradimensionato. Legga gli storici: nazismo e fascismo sono sempre stati fenomeni di massa, non il risultato di complotti. Per anni, in Italia, è scoppiata ima bomba qui, una là. Ma se c'era davvero una volontà eversiva, di treni o di banche ne sarebbero saltate dieci al giorno, tutti i giorni». E delle Brigate Rosse che cosa pensa? «L'ho detto un giorno a Bonavita: che per sgominarli sarebbe ba¬ stata la vigilanza urbana. Li ho conosciuti tutti, di alcuni sono molto amico... A proposito del "sedicente anarchico": mentre i giudici continuavano a infangarmi dicendo che ero fascista, i responsabili delle carceri mi hanno sempre riconosciuto per quello che sono e messo nei raggi dei compagni. Comunque non sono mai stato d'accordo con le br, con il terrorismo organizzato. Il leninismo è nemico dell'anarchia». L'anarchia cos'è? «Allora credevo fosse violenza. Oggi so che la violènza è la forma più alta dell'autoritarismo e che nessuna libertà può scaturine. Oggi so che l'unica forma di vivere l'anarchia è nell'amore, ma è difficile dirlo, sembra patetico. Lanciai la bomba per la rivoluzione, mi ritrovai etichettato fascista». Lei si è giocato tutta la vita in un gesto. E quel gesto è stato equivocato. «Lo so: è tragico e anche ridicolo. Per anni ho pensato che il mio gesto di ribellione fosse talmente pericoloso che lo Stato non poteva fare altro che celarlo, inquinarlo. Ho impiegato dieci anni a capire il mio fallimento completo». Cominciamo dall'inizio: lei era latitante in Israele. Da lì partì con un passaporto falso e la bomba. Disse che la rubò nel kibbutz, ma nessuna bomba risultò rubata. «Non risulta perché la presi a un ragazzo francese mio amico che viveva nella baracca accanto. Lui mi disse che gli era sparita una delle sue bombe a mano e io lo convinsi a non dire nulla. Non è pazzesco come sembra, c'erano molte armi e anche molta confusione nei kibbutz». Si imbarcò per Marsiglia, passando i controlli della dogana israeliana... «Ho spiegato cento volte come: ho avuto molta fortuna, tutto andò bene... O male, dipende». Sbarcò a Marsiglia il 13 maggio, alloggiò tre notti all'Hotel Du Rhonne, il 16, in treno, arrivò alla stazione Centrale di Milano, prese una stanza nella pensione di via Vitruvio, ma la sera la passò con un sindacalista della Cisnal. «Rodolfo Mersi ero mio amico, mio compaesano. E poi la sera prima dell'attentato non sarei mai andato da un compagno per non metterlo nei guai... Ero convinto che sarei morto di lì a poche ore e che in ogni caso la polizia avrebbe indagato sui miei ultimi spostamenti». La mattina del 17 si svegliò alle 7,30. «Mi bussarono i vicini di stanza. Se non l'avessero fatto non sarebbe successo nulla quel giorno». Invece lei si vestì, prese la bomba e uscì. «Andai in piazza Duomo. In un bar lessi il Corriere, appresi che la commemorazione era fissata per le 10,30 in Questura, via Fatebenefratelli. Avevo tempo, andai a comprarmi un paio di calzini». Questo lo disse anche al processo, ma non spiegò mai perché. «Non volevo morire con le calze sporche, tutto qui». Stava per compiere il gesto della sua vita e pensò ai calzini... «E' strano, lo so: andai a comprarmi dei calzini, scesi al diurno della metropolitana e mi cambiai». Poi andò a piedi verso la Questura, ma si fermò al bar. «Volevo bere un rhum come i condannati a morte nei penitenziari della Cayenna francese prima della ghigliottina. Lo avevo letto e volevo farlo anch'io. Invece il barista non aveva rhum, così presi un cognac». Si avvicinò alla Questura, come si sentiva? «Lucidissimo, ma in una specie di trance, vedevo e non vedevo, sentivo e non sentivo. Quando mi avvicinai un poliziotto mi disse: "Circolare". Mi bloccai. Avevo la bomba in tasca, la stringevo, pensavo: adesso entro di corsa nel cortile e lancio. Invece questo poliziotto mi fermò. Non capivo, era andato tutto bene fino a quel momento, avevo fatto, non so, 2 mila chilometri e adesso venivo bloccato a un metro dalla meta. Gli chiesi: "La cerimonia è per Calabresi?" Lui disse: "Sì". Io vidi gli ufficiali uscire, vidi l'uomo con i guanti, dissi: "Lo sa che Calabresi era un assassino?" E lanciai». Non gridò anche: "Viva Pinelli, viva l'anarchia!"? «Non lo so più. Lo dissi al processo... Forse l'ho gridato solo nella mia testa». Ha mai scritto ai parenti delle quattro vittime? «No, non l'ho mai fatto... A che servirebbe? Non c'è rimedio alla morte, non c'è perdono possibile. C'era quella ragazza...». Gabriella Bortolon, 23 anni... «Sì, e stava per sposarsi... Preferirei non parlarne, le dispiace? Preferisco dirle che cosa pensavo allora, forse questo potrà serivire. Pensavo che l'anarchico dovesse assumere su di sé il peso della libertà, attraverso il paradosso dell'esempio estremo. Nell'attimo in cui uccido compio un atto di volontà che viola tutte le regole della legge e della morale. In quel momento sono l'uomo più libero, sono Dio, e se la gente, il gregge, capirà che è possibile farlo perché l'ho fatto io, l'anarchico, la ribellione diventerà possibile». Uccidere non è dare, è prendere. «Oh, sì, oggi lo so. L'uomo non potrà mai essere libero con un atto di forza. E poi non è detto che lo voglia... Non è detto che preferisca invece accontentarsi di piccole cose, di piccoli spazi, di piccole felicità...». Che cos'è la felicità per lei? «Risolvere un'equazione in quindici passaggi anziché in venti, leggere, astrarmi da tutto, volare via». Legge anche i giornali? «Poco, mi annoiano». Che cosa pensa dell'attentato a Roma? «Che è inutile, anche se fa spavento». Dentro agli speciali lei ha conosciuto tutti i boss della mafia... «Qualcuno. Dopo Falcone li hanno portati tutti alla Pianosa, ma metà dei cosiddetti boss sono dei poveri vecchi come me, mi creda». E dell'Italia delle tangenti che cosa pensa? «Tutti adesso se la prendono con Craxi e Andreotti. Ma non vi sono andati bene per quarant'anni? Non li avete osannati? Com'è che di colpo sono diventati il diavolo? Quando sento parlare di guerra alla mafia, guerra alla corruzione, vedo un potere minaccioso che avanza, quello del consenso unanime, dell'entusiasmo forcaiolo, del plebiscito televisivo. I giudici non devono andare in guerra, ma amministrare regole, come i politici. Quando l'unica categoria politica è l'onestà, temo che l'inganno sia già compiuto». Lei tornerebbe a fare politica? «Mai. Una volta sola mi sono occupato dei destini del mondo e vede il disastro che ho combinato». Crede in Dio? «Forse oggi non posso più credere che non esista, ma se c'è è inconoscibile». Per che cosa vorrebbe essere ricordato? «Per i miei cruciverba, nient'altro». PinoCorrias Quattro morti più di 40 feriti «Ma ora so che la violenza non rende liberi» «Sono troppo vile per uccidermi» Qui a lato il commissario Calabresi Al centro il colonnello Amos Spiazzi Nella foto grande l'anarchico Gianfranco Bertoli in carcere Sotto l'attentato del 17 maggio 1973 alla Questura di Milano