POETA, DIMMI COME INVENTI

POETA, DIMMI COME INVENTI POETA, DIMMI COME INVENTI Maria Corti legge Dante ne. Il linguaggio poetico e Dante (Einaudi, pp. 175, L. 25.000) mi pare un libro necessario, come sbocciato per logica conseguenza dal nucleo geminale di altre ricerche anch'esse affacciate sull'abisso della letterarietà (La felicità mentale, Einaudi 1991), sul bordo oltre il quale la scrittura sfuma nel desiderio, nel piacere: ovvero nella «felicità mentale», generata dalla forma organica e geometrica assunta nell'attimo dell'«invenzione». Il processo ideativo-creativo, riconosce Maria Corti attraverso il ricorso ad un larghissimo ventaglio di auctoritates antiche e moderne (Sant'Agostino, Dante, Baumgartner, Poincaré, Poe, Hintikka, René Thom...), «è forse uno dei pochi al mondo in cui una certa diminuzione di libertà si costituisce in fattore positivo, fecondo sul piano dell'invenzione». Se è vero che «il punto di partenza di una poesia è quel qualcosa che viene dal fondo, è come il centro di un piccolo terremoto, come un'onda che sale su», come asserisce Mario Luzi riprendendo, chissà quanto inconsapevolmente, l'antica formula tòpica del «latte che monta» (ma si ripensi al Sublime che, secondo Longino, «scompiglia la situazione a guisa di un fulmine»), si dovrà am¬ mettere che il Caso («un coup de dès...») limita e indirizza, sovrano, il «percorso dell'invenzione». Ma «Caso» significa presupposti, contesti occasionali, situazioni storiche, condizioni ideologiche, momentanee opportunità dal cui irriproducibile comporsi scocca la scintilla (il «fulmine») della creatività. E significa anche sistema di relazioni intertestuali, catena di rapporti che lega l'Opera artistica a quelle che per consuetudine siamo abituati a definire le sue «fonti». Proprio lo studio del nesso di un'opera con le «fonti», cioè con tutto l'universo della tradizione e della storia filosofica, artistica e letteraria, viene coinvolto nell'indagine sui «percorsi dell'invenzione». Il fulmine della creatività Dalla memoria alla fantasia L'inventio che il libro di Maria Corti studia, ponendo Dante al centro di una larga spettrografia, pertinente e sensibile, non è soltanto mera «invenzione», giacché ogni scelta, nell'esecuzione testuale, rappresenta anzitutto un «rifiuto dei possibili alternativi», il confronto consapevole con i modelli semiotici già esistenti. Invenire equivale nel contempo ad inventare e a ritrovare: ogni «invenzione», dunque, rifa i conti con l'esperienza, con il mondo così come esso è stato ed è, con la sua pensabilità. In fondo già Aristotele insegnava, ponendosi il problema delle pure immagini mentali, che la phantasia riesce ad astrarsi dai dati sensoriali, ma non può prescindere del tutto da essi: e nulla è immaginabile (neppure il Mostro, il mitico traghelaphos, o ircocervo) senza che la mente ideatrice debba venire a patti con la realtà sperimentata. Il poeta non può annullare il passato: ma dovrà re-inventarlo sempre di nuovo, traducendo la Memoria in Invenzione, facendo sì che il proprio teste prenda luogo e tempo in Utopia e in Ucronia. Impostare così lo studio delle relazioni intertestuali/avantestuali vuol dire anche cambiare radicalmente atteggiamento nei confronti dell'idea tradizionale di «fonte» quale thesaurus, pozzo, arca, sacca colma di «informazioni» da cui l'artista attingerebbe «materiali» da «introdurre», più o meno camuffandoli e trasformandoli, nella propria opera. Invece il grande poeta, il vero classico, propone Maria Corti, è quello che sa scomporre e ricomporre tutto il «passato», individuare gli interstizi della tradizione per sollevarla o rovesciarla, e infiltrarvi il proprio inedito modello d'interpretazione della realtà. Co glie il centro della questione la Corti, parlando del «carattere "necessario" e non più fittizio delle rappresentazioni immagi narie» offerte dai capolavori, quando insiste sul fatto che «anche l'invenzione artistica fonda un sapere, estende la no stra conoscenza del mondo» e ne offre «una nuova mappa; ce la offre parlando d'altro, natu ralmente, e questa è forse una sublime prerogativa della sua essenza». Rinunciando ad esaminare le «fonti ispiratrici», questo libro suggerisce allora, più aguzza mente e coraggiosamente (né è casuale la scelta, che non po trebbe essere solo «esemplifica tiva», dell'universo-Dante), di studiare appunto le forme di organizzazione dell'avantesto cioè le condizioni entro cui l'o pera si configura nel momento di scarto fra il non-esserci-ancora e l'esserci fulmineo, lampeggiante, dell'immagine poeti ca. Per impiegare una categoria cara a Walter Benjamin vorrei chiamare immagine dialettica, o anche salto, questa bruciante tendenza alla chiarezza e alla determinazione del pensiero che si autorappresenta nel testo, assorbendo in sé il ricordo di tutto il passato e la pensabilità di tutto il futuro, e in quest'atto cristallizza la struttura temporale della rappresentazione. In un libro dedicato da Claudio Colaiacomo ai Canti leopardiani (Camera obscura, Liguori, Napoli 1992), che si potrà leggere in parallelo a questi Percorsi dell'invenzione, trovo ora altre acute riflessioni sul salto dell'immaginazione poetica, cioè sul convergere nell'«avantesto» d'una fitta rete di «minuzie» testuali che d'improvviso, come nell'attività delle sinapsi cerebrali, saltano in un unico punto di vista, raffigurando e rappresentando il Testo. Del Testo infine l'immaginazione creatrice scandisce in esatta pronuncia questa voce molteplice, polifonica, dopo quello che il poeta chiamava «un lungo, incerto mormorar». Neìl'avantesto, dunque, la «memoria» delle fonti e ^invenzione» della loro metamorfosi si saldano, dando vita al linguaggio poetico. Maria Corti dimostra come Dante, nel XXV canto del Purgatorio, riprenda da Sant'Agostino l'idea delle tre facoltà umane della memoria, dell'intelligenza e della volontà, e su di essa basi parte della propria scrittura poetica: almeno fino a quando, nel Paradiso, rinuncia a descrivere la luce che vede brillare negli occhi di Beatrice «perché la mente, cioè la memoria, non è in grado senza intervento divino di riferire quell'esperienza ineffabile». E quando Dante, ancora reinventando un'idea di Agostino, suggerisce la similitudine del sogno per l'attimo in cui, cedendo la memoria dinanzi all'oltraggio, alla dismisura della visione che le parole non riescono a tradurre, è della natura stessa del testo letterario che parla. Di quel testo che, nel nostro tempo, a sua volta Proust farà nascere dall'immagine di sogno, che svanisce quando l'io torna a dominare il linguaggio, riemergendo dall'assenza nella quale parlava invece l'immaginazione onirica ed è ancora Benjamin a far luce su quest'immagine dialettica. Corrado Bologna

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