FEDERZONI

Scoperti dopo 70 anni i quaderni del ministro di Mussolini Invidie, pettegolezzi, ricatti: il regime visto dal buco della serratura Scoperti dopo 70 anni i quaderni del ministro di Mussolini Invidie, pettegolezzi, ricatti: il regime visto dal buco della serratura FEDERZONI Diario in camicia nera IL regime fascista dal buco della serratura della stanza d'un ministro: chiacchiere, pettegolez, 1 zi, sospetti, arrivismi, acidità, piccoli ricatti e grandi rancori. Il ministro in questione è Luigi Federzoni, uno dei capi del nazionalismo italiano, che nel 1926 tenne un diario per 4 mesi. Settant'anni dopo lo pubblica la casa editrice Passigli di Firenze, con un'introduzione storica di Sergio Romano: Diario di un ministro del fascismo, pronto per il Salone di Torino. A dire il vero, sembra di leggere le cronache del palazzo dei nostri giorni, sempre di regime si tratta, come dice Amato: ieri i Federzoni, i Farinacci, i Devecchi, i Balbo, eccetera, oggi gli Andreotti e i Ciarrapico, i De Michelis, gli Intini e via dicendo. Non cercate in queste pagine concezioni ideali o politiche. Sono lo specchio del piccolo cabotaggio della nomenclatura fascista: la Storia si spappola in una zuppa inglese di maldicenze e intrighi, il tutto condito con un'ossequiosità infantile per il Capo e un'indifferenza da basso impero per il Paese. Il delitto Matteotti Il regime nasceva giusto allora, in quell'Anno V dell'Era fascista. Tra il 1925 e il 1926 - superata la gravissima crisi provocata dal delitto Matteotti e sfruttato il clima creato da quattro attentati a Mussolini si compie il passaggio dal vecchio Stato liberal-democratico al nuovo Stato nazional-fascista. Il 5 novembre 1926 il Consiglio dei ministri approvava un giro di vite che prevedeva lo scioglimento di tutti i partiti di opposizione, l'istituzione del confino, il tribunale speciale. Come ha scritto Renzo De Felice (Mussolini il fascista), il 5 novembre '26 è il Diciotto Brumaio dell'Uomo della Provvidenza, in cui realizza la normalizzazione del fascismo e la fascistizzazione dello Stato. In quella stessa seduta del governo. Mussolini accoglie le dimissioni di Federzoni da ministro degli Interni. Nato a Bologna nel 1878, scrittore, critico e giornalista, Federzoni apparteneva all'elite dei nazionalisti, che si contrapponeva al fascismo intransigente di Fari nacci. Come scrive Romano nella Prefazione, «Mussolini si servì di Federzoni contro gli intransigenti e degli intransigenti per coinvolgere Federzoni» Non solo, ma usò «Federzoni per sbarazzarsi di Farinacci e il partito per sbarazzarsi di Federzoni». Costui, infatti, dopo gli attentati, è fatto oggetto di continue critiche: perciò dal ministero degli Interni passa a quello delle Colonie ed è in questa veste che iniziali diario. Che cosa accade dunque, in quel gennaio-aprile del 1927 nell'ufficio di S. E. il ministro delle Colonie? Si raccolgono pettegolezzi, si ricevono raccomandazioni, si registrano confessioni, si immaginano complotti. Un via vai di amici e no, «che mi vengono a servire, per loro uso e consumo, le rancide risciacquature del Viminale», come annota Federzoni il 19 gennaio. «Io rispondo sempre che non mi occupo se non di politica coloniale». Ma sarà vero? Ecco «atroci tragedie», con lamentele per via burocratica, per una questione di precedenze in un corteo a Tripoli: protesta il sottosegretario alle Colonie perché la sua signora è nella decima automobile, mentre scoppia, per la stessa questione, «un conflitto latente fra il generale Cicconetti e il segretario generale Queirolo, ma sopra tutto, non occorre dirlo, fra le rispettive signore». La cosa si complica, annota Federzoni, «col fatto che il Queirolo è amico della così detta "B.O.M.", ossia della lega Butturini, Onorato, Mei». E chi sono costoro? Funzionari del Governatorato della Tripolitania, sui quali il ministro ha ricevuto un dossier che li accusa di fare la cresta su «imbrigliamento delle dune, case popolari, fornitura d'acqua alle truppe, ecc.» e di avere organizzato nel Grand Hotel in cui alloggiano una bisca pubblica. Patetico il commento: «Cose tristi!». Ecco il disprezzo per Attilio Teruzzi, governatore della Cirenaica, il quale chiede l'aiuto di Federzoni «in una certa imbrogliata faccenda ricattatoria nella quale egli si trova impigliato ad opera di una sciagurata che lo accusa di averla sedotta, resa madre, ecc.». Il grasso plutocrate Ecco lo scherno per il quadrumviro Devecchi, governatore della Somalia, chiamato soltanto Cesare Maria e paragonato a un «Radamès piemontese e baffuto». Federzoni teme che il suo ritorno gli ostacoli la carriera politica: «Attraversiamo una fase di deflazione - lo rassicura Mussolini -. Sta tranquillo che Devecchi riceverà un'accoglienza deflazionista». Vengono a galla, talvolta, anche fatti di cronaca, ma hanno il ruolo di «grosse seccature», come quando un giudice spiega a Federzoni di aver voluto lasciare la Somalia perché alcuni concessionari italiani avevano seviziato e massacrato dei ribelli: «Un tal De Giovannini avrebbe poi buttato sul fuoco un bambino indigeno». D'altra parte Federzoni è un vero e retorico nazionalista: le bande di africani che si ribellano alla presenza degli italiani che cosa sono se non «gli ultimi barbari in arme contro la conquista della civiltà»? Naturalmente, nel diario, ci sono anche le sedute ministeriali, i progetti per le colonie, la vita politica pubblica e ufficiale, ma il pettegolezzo appare la sottocultura del regime, una specie di marmellata a cui tutti sono appiccicati come mosche. Perché il Papa avrebbe condannato «Action francaise», il movimento nazionalista transalpino, nemico del sistema parlamentare? Perché il nunzio a Parigi, monsignor Cerretti, in predicato di vestire la porpora, «sarebbe incappato in una sfortunata avventura galante», dalle noiose conseguenze della quale sarebbe stato salvato dal ministro degli Esteri di Parigi, il signor Aristide Briand. «Ma costui non fa nulla per nulla»: in cambio del silenzio con la Santa Sede, Briand avrebbe ottenuto la sconfessione dell'«Action francaise». Ecco lo scontro fra «il grasso plutocrate» Camillo Castiglioni, banchiere triestino, che vuole un porto industriale a Pola e Volpi, ministro delle Finanze, che ha affidato un'iniziativa analoga (il famoso Porto Marghera) a un suo «luogotenente d'affari», cioè «il così detto conte Cini». D'altronde, proprio Volpi, «maldicente com'è», è una delle fonti di pettegolezzi. Non si salva neanche il re: «19 febbraio. Il ministro della Real Casa, alla mia richiesta di un premio del Sovrano per il Circuito internazionale automobilistico, ha mandato una medaglia d'oro che varrà 300, al massimo 400 lire. E sì che, nella stessa mia lettera, io avevo fatto sapere di aver donato, come ministro, 5000 lire! Sono coteste taccagnerie che nuocciono alla Monarchia più di tutte le impertinenze». Né si salva dalle maldicenze, com'è ovvio, lo stesso Federzoni. Dopo un incontro con il Duce scrive: «Breve digressione mia circa le frottole iettatorie, messe in giro dai malvagi creti- ni che non sanno più che dire sul conto mio, circa la mia pretesa cagionevolezza di salute, ecc. Il Duce, ridendo, osserva che io ho un aspetto floridissimo. Faccio le corna, e tiriamo avanti». In questo bailamme, in questa navigazione sotto costa, in una simile atmosfera «di timori e di sospetti, in cui anche i prodi e gli intelligenti possono perder la testa», emerge naturalmente, come il polo attorno cui ruota il sistema, Lui, il Duce, o più spesso «il Capo». Non diversamente da come potrebbe fare un innamorato, Federzoni ne scruta e descrive salute e umori. Il 3 gennaio: «Il Duce era di aspetto fresco e sereno e di graziosissimo umore». Il giorno dopo: «Il Duce, di pessimo umore, Dio sa perché». Il 6 è «delizioso». L'8 tiene «un discorso mirabile», ma il 13 lo tiene «stupendo». Il 26 è un «improvvisatore geniale e audace». Il 5 febbraio: «Il Duce, sia ringraziato Iddio, sembra di buonissimo umore». Il 13 invece «non ha l'aria di star bene». Il 23 «siedo accanto al Duce, che è allegrissimo: facciamo una chiacchierata a base di frizzi e di aneddoti, con certe risate quasi compromettenti la gravità del governo». Il 25 una banalissima battuta del Capo fa scrivere a Federzoni: «Quale segreto di poesia fiorisce sotto coteste parole scherzose?». L'adulatore continuo Certo Federzoni - da scaltro ex ministro degli Interni - sapeva bene che quel diario un giorno o l'altro sarebbe finito nelle mani del Duce. Si può pensare che egli scriva pensando all'«augusto lettore». Ma queste dedizione e adulazione erano anche genuine, nel senso che nascevano dalla convinzione politica che il Duce allora era tutto, che il regime si identificava con il suo Capo. Come tanti altri collaboratori troppo fedeli, il «tonitruante» Federzoni - come lo definì Luigi Salvatorelli - sarà gradualmente messo da parte, man mano che crescono le fortune del regime. Passato a presiedere, dopo la morte di D'Annunzio, l'inutile Accademia d'Italia, il 25 luglio del '43 appoggerà apertamente la mozione Grandi, contribuendo alla caduta dell'uomo che aveva servito e adulato. Morirà nel 1967. Alberto Papuzzi Settant'anni dopo sembra di leggere una cronaca del nostro Palazzo Critiche anche al re: «Per la gara d'auto ha mandato solo una medaglietta, questa è tirchieria» h In senso orario: Attilio Teruzzi, governatore della Cirenaica. Giacomo Matteotti. Giuseppe Volpi, ministro delle Finanze. Farinacci e (qui sotto) Mussolini Luigi Federzoni fu ministro dell'Interno prima di essere trasferito al ministero delle Colonie