Il bis dei magnifici Sei

Il bis dei magnifici Sei Le mostre del Gruppo torinese ricostruite nella retrospettiva alla Mole Il bis dei magnifici Sei Quando Chessa il coraggioso sfidava Matisse TORINO ONO passati quasi 30 anni dalla mostra ordinata da Vittorio Viale alla Galleria Civica d'Arte Moderna dedicata alla breve stagione 1929-1931 dei «Sei Pittori di Torino» (poi cinque, poi tre). Oggi, dopo che negli ultimi 20 anni studi e mostre hanno ampiamente ridisegnato il panorama della cultura artistica in Italia fra le due guerre, con qualche eccesso di revisionismo e di rivalutazione . antiavanguardie, appare quanto mai opportuno riprendere il discorso sui Sei. L'esposizione di Viale, fu un'ampia rassegna dell'attività dei sei artisti in quel periodo. Questa, ordinata con semplice eleganza alla Mole fino al 4 luglio, con catalogo Fabbri, è la mostra delle mostre. Organizzata secondo criteri che vanno diffondendosi, non senza qualche renitenza negli studi e nella critica contemporanea, questa è la mostra delle pubbliche esternazioni del gruppo in quanto tale. Oltre alle tre personali nel periodo di Menzio, Boswell e Chessa, ingloba anche quelle ospitate nella elettiva sede torinese della Galleria Guglielmi. Il criterio è tanto più valido in questo caso, poiché fu esplicito da parte dei Sei il rifiuto della costrizione entro poetiche preconfezionate e comuni. Questo è evidente nel momento in cui come tali rincorrevano con lucida autogestione pareti private e pubbliche da Torino a Genova, da Milano a Venezia e a Roma, da Londra a Parigi. Al momento della seconda mostra torinese nel gennaio 1930, tirando le fila di un anno di mostre comuni culminante ih quella milanese presso Bardi, (non a caso fra le più riccamente illustrate in questa occasione, con 22 dipinti), Francesco Men- zio, riconosciuto da tutti e innanzitutto da Persico come capofila (non solo per ragioni di età: aveva solo 3 anni meno di Casorati) dichiarava e pubblicava: «Senza bisogno di formulare un programma, o di redigere manifesti, questi sei pittori ottimi amioi nella vita, trovatisi l'uno accanto all'altro e legati da idee e finalità assai simili...». Quali idee? E quali finalità? Leggiamo l'interpretazione delle loro posizioni ed opere offerta al pubblico londinese da Lionello Venturi, uno dei loro mentori (ma si veda con quali occhi spregiudicati e ammiccanti Levi, Paulucci, Menzio guardino a questi mentori e amici, Persico, ma anche lo stesso Venturi, nella preziosa silloge di lettere in catalogo, molte inedite): «I signori Menzio, Levi e Paulucci sono tre giovani pittori italiani, che chiedono di vivere per dipingere, senza porre limitazione alcuna alla loro sete di pittura... Essi non rifiutano nessuna esperienza e non si legano a nessuna... Questi tre pittori hanno in comune, non dirò un'estetica, ma un sogno pittorico. Il loro temperamento è assai diverso, e però la loro pittura è differente». Questa, al di là delle prime e necessariamente sommarie rese di conti storiche dopo la Liberazione (fra ritorni all'ordine, maestri di Novecento, gruppi giovanili fra Torino e Roma e Milano), è la vera posizione di fondo altrettanto italiana quanto internazionale in questa svolta fra due decenni. Essa è comune ai nostri Sei, a quelli che a Milano saranno chiamati più tardi i Chiaristi (e si veda ih mostra il Corridore podista di Menzio esposto alla Biennale veneziana del 1930 a confronto con gli esordi di Birolli), ai romani di Via Cavour: Scipione, Mafai, Raphael. E' la nuova generazione europea, e presto anche,statunitense. Una generazione che vuole formare per colore e per luce, per pittura insomma, Urica o espressiva, per sublimazione in stile - è ciò che ama soprattutto Lionello Venturi, mistico laico o per deformazione patetica. Che vuole il superamento, piuttosto che l'antinomia rispetto alla costruzione per forma degli Anni 20, neoclassica o neonaturalistica, metafisica o astrattocostruttivistica; Cézanne rimane un valore di fondazione anche in mezzo alla rivincita del fauvismo, di Matisse, dei loro esiti in Pascin o in Soutin. In questa prospettiva generazionale, il gioco degli echi e delle interpretazioni è libero e ricco. Il Marquet giocato come «féerier» da un Paulucci ben deciso a propagandare una Còte d'Azur ligure è altra cosa da quello, denso, con cui Chessa a Venezia si affianca a Guidi. Qui le attenzioni sono al di là di una frontiera nazionalistica assai più fragile di quanto a parole proclamavano gli Qjetti di regime. La radice modiglianesca dei sogni di Nude di Chessa è altra cosa rispetto all'inquieta lettura espressionistica di Levi, che è certamente, nel gruppo e in quel momento, il più consonante con i romani di Via Cavour. Ma in questo bellissimo e liberissimo gioco di sponde giovanili fra un cantone e l'altro d'Italia si affacciano anche da Milano Sassu e il primo Manzù pittore. Di nuovo tornando di là dalla frontiera, non ricordo né allora nè mai in Italia una così corag giosa sfida a Matisse come la ATaturo morta in rosa e grigio II esposta da Chessa alla personale da Guglielmi a Torino nel 1931. Altre volte, incontriamo segni inequivocabili di comunità fisiche di lavoro con immediato confronto fra poetiche diverse Non un calcolo critico, ma esigenze esterne di illuminazione diversificata hanno portato ad accostare in mostra due Nature morte esposte da Levi e da Men zio alla mostra londinese del no vembre 1930: nel confronto net to fra l'affluenza di spazio-colore di Levi, che sembra anticipa re di decenni la poetica di Martina, e la forma di colore struttura di Menzio, il rosso arancio sembra uscito dallo stesso tubetto, le sintesi di un grappolo d'uva sono gemelle. Marco Rosei Disse di loro Venturi: «Questi giovani chiedono di vivere per dipingere, senza porre limitazioni alla loro sete di pittura» Nell'Italia fascista un intenso dialogo a distanza con i Chiaristi di Milano e la Scuola Romana di via Cavour wMHÉfim Disse di loro Venturi: «Qchiedono di vivere per diporre limitazioni alla lo A sinistra, «Vela bianca a Portofino» dove Paulucci, nel 1929, propone una sua Còte d'Azur ligure. Qui accanto, «Le due signore» dipinto di Carlo Levi « Figura n° I, ragazza in bianco» di Gigi Chessa. Alcuni suoi dipinti sono una sfida a Matisse