CALVINO in

CALVINO CALVINO fc \ ÉI Htacditnonuziascrl'altro: due gimattino alla sescritturapromemsembrar- paginutgvuL OME in una canzone di Paolo Conte. La Topolino non è color amaranto ma di un non vistoso crema chiaro. L'ha comprata Giulio Einaudi per la sua casa editrice. Deve servire un po' a tutti gli usi, da quello privato per farsi portare da casa a via Biancamano (è sempre stato un guidatore poco interessato) a quello di rappresentanza per collaboratori e autori illustri, a mezzo idoneo a raggiungere, in una Italia disastrata dalla guerra, librerie e distributori regionali. ginazione grafica, con Bollati, giovanissimo redattore arrivato dalla Normale di Pisa, con lo stesso Einaudi, che puntigliosamente richiede relazioni sulle vendite e sullo stato di salute dei luoghi esplorati. Il ricordo di quegli anni sarà presto un libro Millelire, con il quale Baraghini vuol festeggiare la presenza della sua casa editrice al Salone di Torino e un omaggio alla Einaudi. La testimonianza di Calvino in Topolino è stata raccolta da Franca Mora, una psicologa che lavora alla Mercedes di Roma, amica di Beppe Oreffici. Lo ha convinto a ricordare e a raccontare quella lontana esperienza editoriale, quella - perché Oreffici ha poi lavorato per gli Editori Riuniti, Boringhieri, Lerici - che più lo aveva toccato. Anni duri, non facili per chi voleva vendere libri. Ma Oreffici aveva esperienza di pei, conosceva fabbriche e federazioni, sapeva come vendere, «a comode rate mensili», un Sono gli Anni 50. A guidare la Topolino è un giovane di vent'anni, da poco assunto nella casa dello Struzzo; si chiama: Beppe Oreffici. Vede entrare Bobbio e Mila, Natalia Ginzburg e Italo Calvino, lui ha rapporti con il padre di Achille Occhetto che si occupa della vendita rateale, con Roberto Cerati, pendolare fra le librerie ancora in piedi, con il mitico direttore commerciale, «il dottor Scherrer», con Molina, mago dell'impa¬ me nascoste ed imprevedibili. Partivamo sempre con pochissimi soldi in tasca, ai limiti della sopravvivenza, ma non ce ne preoccupavamo: non si sa se per superficialità o perché davvero il denaro non interessava a nessuno dei due. Un giorno, eravamo arrivati fino a Lecce, dove avevamo finito i soldi: non avevamo più nulla neppure per la cena. Non chiedemmo un prestito ad un libraio: si potrebbe credere oggi che fu per vergogna o perché non volevamo ledere l'immagine della casa editrice. Penso che non fosse per questi motivi: noi non ci pensammo neppure e questa era la nostra forza, che ci permetteva di L'autista dell'Einaudi racconta un viaggio al Sud «Ilo acconyxignato lo minore Ira librerie e digiuni Mi ricordo che llalo quel giorno a Matera...» essere distanti dalla realtà e di leggerla con altri occhi. Inviammo un telegramma a Einaudi, perché ci soccorresse con un vaglia telegrafico. I tempi delle poste, però, non sono mai quelli della necessità e aspettammo circa due giorni. Non avevamo i soldi per l'albergo e rimanemmo così tutta la notte su una panchina, davanti alla porta, pronti ad afferrare il vaglia, quando si fosse aperto l'ufficio postale. Rileggendo anni dopo la storia del barone rampante scritta da Italo Calvino, non potei fare a meno di ricordarlo appollaiato su quella panchina, sospeso nel buio della notte, a divertirsi a parlare del futuro o del comico che ci poteva essere anche nelle stelle. E capii che il barone rampante era proprio lui, appeso su quella panchina come su un albero, saltellante con le parole nel vuoto di quella notte, un «solitario che amava la gente», come egli stesso hi basso Italo Calvino: fc \ il suo viaggio in Topolino ÉIÉL sarà un millelire Gramsci e un Hemingway. Sono i tempi in cui gli «einaudiani» vivono insieme; le trattorie, dove i conti si segnano con il gesso sulla lavagna, si chiamano Pollastrini, Simone, Goffi; le vacanze si fanno in Val d'Aosta. Oreffici con la sua Topolino gira l'Italia. Porta il direttore commerciale, spesso gli scrittori per conferenze itineranti, a tessere rapporti culturali. Qualche volta Pavese (che non avrebbe mai toccato un volante in vita sua), qualche volta Calvino (pessimo autista, sempre per fossi e paracarri). Da Calvino in Topolino pubblichiamo lo stralcio di un divertente viaggio nel Sud, alla guida Oreffici, a fianco il giovane redattore della casa editrice, l'autore dell'appena pubblicato: Il sentiero dei nidi di ragno. Ci sono da controllare le librerie di Bari, Taranto, Matera... un viaggio lungo con, naturalmente, pochi soldi. Nico Orengo avrebbe più tardi definito il suo personaggio. Solo alcuni aspetti della realtà lo toccavano e certo non quelli che preoccupano e occupano i più. Un giorno arrivammo a Rimini e incontrammo due piacenti ragazze, che si misero, è vero, a conversare con noi, ma che non tradivano certo quali fossero le loro intenzioni e il loro lavoro. Usai tutti gli argomenti per convincere il mio compagno di viaggio a saldare la sua parte di conto: secondo lui, la simpatia e forse un folgorante innamoramento avevano animato la sua improvvisata accompagnatrice, non il denaro. Pagai in fretta per due e ripartimmo, divertito io e appagato lui. L'emozione più intensa che provai in quel viaggio fu la volta che sostituii Calvino, indegno ma indispensabile alter ego. Dopo la notte trascorsa davanti all'ufficio postale, avuto il denaro, ripartimmo alla volta di Tricarico per andare a trovare Rocco Scotellaro, il poeta contadino e sindaco del paese. Ci andammo proprio per trovare lui e forse anche per fare un gran pranzo: Calvino era un critico eccezionale di libri altrui e non poteva lasciarsi sfuggire l'occasione di conoscere il poeta. Il viaggio e l'incontro non tradirono nessuna nostra aspettativa. Era estate, il mese di luglio, che al Sud è il mese più caldo: la strada era bianca e si snodava sotto un sole implacabile. La nostra Topolino arroventata arrivò a Tricarico a casa di Scotellaro, semplice e tipica abitazione di quei paesi lussureggianti per ciò che la natura promette e mantiene. L'incontro tra i due fu commovente: si parlò di terra, di libri, della gente, del Sud, del futuro e il pranzo fu una delle più memorabili mangiate della mia vita. Bevemmo, Calvino e io, per ammazzare il peperoncino, per sollecitare le parole, per sancire un'amicizia iniziata finalmente non solo attraverso le pagine dei libri. Riprendemmo nel pomeriggio la strada per Matera, dove si prevedeva saremmo arrivati in serata. Così fu, ma il mio compagno di viaggio era irriconoscibile, stravolto dal vino e dal cibo. Non si reggeva in piedi e si chiuse in albergo. Gli inviti erano fatti e i manifesti rivestivano i muri del paese: l'incontro era ormai nell'immaginario di tutti. Incontrare un intellettuale, sentire l'Einaudi era un avvenimento, poiché non c'era la televisione e le strade disastrate non permettevano incontri frequenti con altri paesi. «... Il libraio non voleva rinunciare e mi disse: "Devi tenerla tu". Avevo ventidue anni, non ero un intellettuale ed ero di poche parole, o almeno così credevo. Non avevo mai parlato in pubblico...». Ancora oggi non so quello che dissi, perché non riuscii a sentirmi mentre parlavo, tanta era l'ansia di cui non ero neppure consapevole. Più che il pubblico, mi emozionava il sostituire Calvino: l'ho già detto, non sapevo che sarebbe diventato forse il più grande scrittore del Novecento, ma per me era già qualcuno da ascoltare, da imitare, con cui condividere il divertimento del mondo e del futuro. I miei ricordi di Calvino arrivano fin qui, fino al giorno in cui lo sostituii e per me è già gran cosa il rammentarlo. Era un piacere sentirlo: le parole erano scelte con naturalezza ed estrema cura, le frasi leggere e ben costruite, le argomentazioni appassionanti. La gente veniva conquistata da quel furetto dagli occhi mobilissimi, strano per essere scrittore anche nel modo di vestire, sempre pittoresco, colorato come un sudamericano. Il suo entrare in rapporto con la gente era una scommessa: occorreva credere in lui, credere che avrebbe parlato. Gli inizi dei suoi discorsi erano tutti balbettii, a volte borbottìi, magari ritmati, falsi incipit, parole dette a metà: l'ascoltatore doveva aspettare che quelle sillabe si combinassero in un conversare vivido e vitale. Non credo che pensasse al discorso mentre lo cominciava così: le incertezze vocali non erano un sostare riflessivo, bensì un rituale fisiologico, gesti quasi magici e inconsapevoli con cui Calvino entrava in contatto con il mondo e con le idee. Franca Mora