ARMENI La carovana morte

ARMENI Sopravvissuto alla campagna di puli2ia etnica dei turchi, nel 1915. Da 70 anni vive in Italia, adesso ha scritto un libro ARMENI La carovana morte VENEZIA DAL NOSTRO INVIATO Non può. Non smetterà mai di ricordare: ha visto la sua famiglia, il suo villaggio, il suo popolo - un milione e mezzo di fratelli armeni - scomparire tra i sassi dell'impero ottomano, anno 1915, uccisi dal freddo del Caucaso, dalla sete del deserto siriano, dal coltello dei curdi e dalle accette dei cete, nel primo genocidio del XX secolo. Lui è sopravvissuto. Settanta anni dopo Raphael Gianichian, esule per sempre, è tornato al suo villaggio, si è seduto sulla riva del torrente Khodorciur e, dove c'era la sua patria, ha trovato pietre, alberi, vento. Ha scritto: «Ricordo tutto, ma non vedo niente». Era un bambino di nove anni, quando i villaggi armeni del suo distretto, Anatolia settentrionale, furono circondati e svuotati dai soldati turchi. Anno furente di pulizia etnica, mentre il mondo entrava nelle trincee della Grande Guerra e i nazionalisti del partito dei Giovani Turchi decisero che era venuto il momento di cancellare dalla patria musulmana i due milioni e mezzo di anneni cristiani. Lui ha visto e ricorda. Case e proprietà requisite, uomini, donne e bambini fatti camminare in colonna, per 86 giorni, verso Malatya, fino alle rive dell'Eufrate, luogo predisposto per il massacro. Sono partiti in 10 mila. Si sono salvati in sette. Di sette, oggi, è vivo solo lui, Raphael, vecchio con la faccia segnata dal tempo, le spalle e le mani grandi, i polsi da lottatore, gli occhi asciutti. Siede dritto sulla poltrona di pelle. Dalla finestra si vede la sabbia del Lido di Venezia e l'acqua dondolante sbiancata dalla risacca. Lui pronuncia nomi di gente e luoghi che non esistono più. Il vento soffia senza ostacoli. Sulla spiaggia solo onde, macchie di sole, gabbiani. Due mesi l'anno vive qui («Mi annoio, mi riposo, scrivo»), il resto a Cortina, in una piccola casa fuori del paese. Si è salvato diventando schiavo-pastore nel villaggio curdo di Buyukbagh. Un vecchio e la moglie gli hanno messo nome Adbdullah, lo hanno circonciso e fatto musulmano. Una missione umanitaria americana, alla ricerca dei sopravvissuti, lo ha scovato quattro anni dopo, nel 1919. «In quei quattro anni avevo dimenticato la mia lingua armena, vivevo con le greggi, coltivavo il papavero, ero diventato un piccolo curdo, felice e smemorato». Gli americani lo portano a Istanbul dai Padri Mekhitaristi: «Trenta giorni dopo, di colpo, ho ricominciato a parlare armeno e a pregare Dio». E' arrivato in Italia all'inizio degli Anni Venti, ha studiato nel collegio armeno dell'isola di San Lazzaro, qui a Venezia («Vede questa fotografia? E' la mia classe, eravamo tutti orfani»), è diventato farmacista, è diventato italiano, è invecchiato in pace. Dieci anni fa è voluto tornare a Kissak. Ora ha scritto il diario - pubblicato dalla Casa Editrice Armena - di quel pellegrinaggio dentro il tempo e dentro il ricordo, lo ha intitolato Khodorciur, e sulla poltrona di pelle, oggi, stringendo un poco gli occhi, dice: «Forse è stato un errore, ho trovato solo rovine». Poi scuote la testa: «Ma dovevo farlo. Sono l'ultimo vivente, dopo di me nessuno ricorderà che esisteva il mio paese». Il diario comincia così: «Vado in cerca della mia patria, sono un pellegrino, dopo settanta anni di assenza. Sono nato in Turchia nel 1906 ai tempi del Sultano Abdul Hamid, in un paese di alta montagna». Ha attraversato in macchina la Jugoslavia, la Grecia, è arrivato a Ankara, poi a Yosgat. Da lì ha preseguito a piedi, tra i sentieri delle sue montagne, incontrando i vecchi dei villaggi, i pastori, l'orso, i torrenti. «Volevo rivedere la tomba di mia madre, morta quando io avevo tre anni e seppellita nel mio villaggio». Non ha più trovato il villaggio. Il cimitero cristiano degli armeni è diventato un campo di frumento arato dai contadini turchi. I Khachkar, le croci di pietra, sono stati spostati, rotti, divisi, tornati pietre tra le pietre nei muri di confine tra i campi. Si è messo a cercare e tra un mucchio di lastre di marmo ha trovato il cognome della madre: Takuhi. Scrive: «Mi metto in ginocchio, comincio a conversare con lo spirito della mamma: "Vengo da un Paese che si chiama Italia. Ho una famiglia: mia moglie si chiama Dina; abbiamo quattro ragazzi: Yervant, Nubar, Vartan e Susanna. Il mio nuovo paese si chiama Cortina, è circondato da alte montagne. La mia casa si trova in mezzo a un grande prato; scende da un monte un ruscello: gli ho messo nome Khodorciur. Mamma, la tua tomba si trova in un paese straniero, non c'è nessun pa- rente che venga a trovarti, a portarti un mazzo di fiori. La nostra casa qui non c'è più. Tu sei stata fortunata: sei morta a Kissak, non hai subito le sofferenze dell'esilio, le umiliazioni disumane». Sta con le mani appoggiate alle ginocchia. Racconta: «Tutto è cominciato una mattina del mese di giugno dell'anno 1915. Al paese è arrivato il Kaimakan, il governatore distrettuale, con cento gendarmi. Quel giorno la nostra vecchia vita è finita per sempre. Ricordo una grande confusione, le donne che preparavano le sacche, i muli che venivano caricati, gli uomini che parlavano fitto tra loro e noi bambini eccitati, spaventati per un gioco che non capivamo. I gendarmi entravano nelle nostre case, prendevano tutto, ci spingevano fuori. All'alba ci hanno messo in fila». E' passata alla storia come la «carovana della morte», scortata non più dai soldati turchi, ma dai guerrieri curdi, su e giù per le montagne dell'Anatolia, depredati di tutto, assaltati dai lupi, decimati dalla fame. «Ci siamo messi in cammino e mi ri¬ cordo che non avevo paura. La mia famiglia era di trenta persone, avevamo tende e buone coperte per la notte. Mio padre ci difendeva. Lui era fabbro e in certi villaggi, quando stavamo fermi per giorni, lavorava di notte, riparava gli aratri dei contadini in cambio di riso, farina e siero di latte. «No, non ho mai avuto paura. Anche quando arrivammo nei luoghi del massacro, come .alle pendici del Monte Zeynal, dove abbiamo trovato, coricati per terra, i sopravvissuti di Erzerum. Erano 50 mila, rimanevano poche decine di uomini. Legato al tronco c'era uno scheletro e una donna ci dice: "Sono le ossa di padre Matteo, gli hanno tagliato gli organi sessuali e lo hanno torturato fino alla fine". «Mio padre è morto di notte, a metà dell'esodo, stroncato dal cuore e dalla fatica. Allora sì, mi sono sentito perduto, ma per una notte sola. All'alba, con i cugini e gli zii lo abbiamo seppellito. Poi abbiamo ricominciato a sopravvivere: lavoro in cambio di cibo. «Dopo 86 giorni di cammino siamo arrivati a Malatya. La carovana della morte era diventata sottile. Da settimane i vecchi e le donne cadevano lungo il cammino, precipitavano nei burroni, morivano nelle notti ghiacciate. C'erano buoni curdi che uccidevano i feriti per non lasciarli vivi in pasto agli sciacalli. Ma tanti venivano dimenticati lungo il cammino e i bran¬ chi di lupi ci seguivano a distanza, ci fiutavano, e chi cadeva era il loro pasto». Raphael Gianichian parla con lunghe pause. Dice che non odia i turchi: «Con loro abbiamo convissuto per 600 anni in pace. E' stato il governo a decidere il massacro, ma i contadini, per quel poco che potevano, ci hanno aiutato». Dice: «Quando sono tornato, solo i vecchi sapevano e mi hanno onorato». Metà del milione di armeni scampati è emigrata in Francia e in California. L'altra metà nel Nagorno Karabakh a ingrossare l'enclave che oggi combatte contro gli azeri, in quel che resta della ex repubblica sovietica dell'Azerbaigian. Racconta: «L'Eufrate a Malatya è largo come il mare, bellissimo. Era quello il luogo della grande morte. I contadini avevano tagliato il frumento. Arrivavano le carovane da tutta l'Anatolia, i curdi si fermavano e comparivano i cete, i condannati a morte liberati dalle galere dell'impero per fare il lavoro del massacro. Si muovevano con i carri o a piedi, armati di accette, coltelli, spade. «E' lungo uccidere senza la mitragliatrice, senza il gas, usando il coltello. Bisogna colpirne uno alla volta e ci vuole molta forza, molte ore, molti giorni, anche se la tua vittima non mangia da settimane e ha i piedi sanguinanti». Gianichian si scopre i polpacci: «Vede queste cicatrici? Sono di allora: la pelle sui muscoli si era rotta dalla fatica, sanguinava e ogni sera mio padre, sinché è stato vivo, mi cospargeva le ferite con il grasso di pecora, mi faceva entrare nei ruscelli, mi diceva: "Siediti, l'acqua pulisce e fa guarire". «I cete potevano prendersi tutto quello che trovavano, gli ori, i bambini, le stoffe. Erano i nostri padroni finali. Noi siamo arrivati per ultimi. I banditi erano già andati via... altrimenti non sarei qui a raccontare. Fummo usati per seppellire i cadaveri e per venti giorni, tra i campi di Malatya, abbiamo scavato e pregato, trasportando migliaia di cadaveri fatti a pezzi. I turchi volevano che i campi fossero pronti e puliti per la semina. Il mio popolo era il concime». Prende fiato. Ora parla più sicuro: «Ho perdonato. Sono sopravvissuto per caso e, anche se la morte mi ha segnato per sempre, ho avuto una vita felice. Il mio bene più grande è la famiglia, la vita che continua. Ogni giorno scrivo di quel passato terribile. Scrivo in armeno e con i miei figli parlo armeno. Mi dà piacere. Hitler, nel 1942, preparando l'Olocausto degli ebrei, ha detto: "Chi si ricorda più degli armeni?". Ed erano passati appena 25 anni. Aveva torto. Ora è trascorso quasi un secolo e non tutto è andato perduto». Pino Corrias I soldati circondarono i loro villaggi e li svuotarono Partirono in 10 mila, si salvarono in sette: è rimasto solo lui «Dopo 86 giorni arrivammo al luogo del grande massacro: ci toccò seppellire migliaia di cadaveri fatti a pezzi» L'esodo e a sinistra Garabed Gianichian, papà di Raphael. In alto il protagonista a 13 anni (primo a sinistra, seduto). A destra, in una foto recente

Persone citate: Abdul Hamid, Gianichian, Hitler, Raphael Gianichian, Turchi, Vartan