Noi Sei una splendida avventura

D Si apre oggi alla Mole la grande retrospettiva dedicata al gruppo torinese, Paulucci ricorda Noi Sei, una splendida avventura «E intanto cambiavamo l'arte borghese» D TORINO EI suoi cinque compagni sono rimaste le opere. Del Teatro di Torino, dove loro si trovavano negli Anni Venti, sopravvive da decenni solo l'insegna, sul muro smozzicato fronteggiante la Mole. La Juventus del 1920, con la quale giocò il campionato da portiere, prima di Combi, non esiste più nemmeno nelle cartoline. E lui, Enrico Paulucci, il solo superstite del gruppo, continua a dipingere. A 91 anni compiuti, viene ogni mattina qui, nel grande studio affacciante sul paesaggio di piazza Vittorio e della collina, che gli suggerisce i colori. «La pittura è la mia vita - dice -. Non potrei stare un giorno senza prendere i pennelli. La notte mi sveglio e penso al quadro che devo fare». La mostra dei Sei che si apre domani alla Mole (oggi l'anteprima per inviti), per lui non è certo una commemorazione. Quella vicenda, iniziata 64 anni fa, è la parte di una vita ancora protesa in avanti. Tutto è cambiato, intorno: Torino, la società italiana, il mondo dell'arte. Lui, non è cambiato. Preciso nei ricordi, fermo nei giudizi, insostituibile testimone di un'epoca che, nella sua città, è stata unica. Maestro Paulucci, che cos'era la Torino di quegli anni? «Era una città all'avanguardia d'Europa, su tutti i fronti. Molto del merito lo aveva Riccardo Gualino, un uomo eccezionale, perché non ha sbagliato dove mettere il suo interesse, dove intervenire con il suo aiuto. Il Teatro di Torino, fatto da Chessa, ha avuto spettacoli straordinari, internazionali: prosa, balletti, musiche guidate da Guido Maria Gatti. Nella musica avevamo già Massimo Mila, veniva spesso Casella. In letteratura c'era il gruppo di Giacomo Debenedetti, con il giovane Soldati. Per il cinema c'era Mario Gromo: ricordiamoci che la critica cinematografica in Italia è nata in quegli anni a Torino». E nella pittura? «Nella pittura c'era Casorati, che aveva iniziato un movimento al di là dell'arte borghese di Grosso, allora presidente dell'Accademia: e tutta l'Accademia era assolutamente chiusa al moderno. C'era una critica d'arte, all'avanguardia: Lionello Venturi, in Università, e quello straordinario personaggio che era Edoardo Persico. Uomo da caffè, aveva una vita misteriosa, non ha lasciato scritti. Ma gettava le pietre in tutti i laghetti calmi». Era l'uomo ideale per quei giovani, che i laghetti calmi non li amavano proprio. Ma chi ha «fatto» i Sei? Persico? Venturi? Gualino? «Ci siamo trovati in modo molto spontaneo, non c'era niente di programmato. Ci siamo scoperti amici, con Persico: tutti fuori dai giri politici, meno Carlo Levi, che veniva dal gruppo gobettiano ed era già legato ad Einaudi. E' difficile dire perché siamo nati. Eravamo giovani, volevamo cambiare l'andazzo della pittura borghese, volevamo uscire dal neoclassico che era promosso dalle gerarchie fasciste. Nessuno di noi era fascista, erava- mo piuttosto "anti". Noi guardavamo all'estero, soprattutto a Parigi». Come vi siete presentati, la prima volta? «Non ci siamo presentati. Abbiamo fatto la prima mostra in una galleria che vendeva mobili e tappeti, hanno sgomberato una saletta e abbiamo appeso i nostri quadri. Ci ha fatto il cartello dell'invito Spazzapan, che non era del gruppo. Lui era di un'altra radice, espressionista, ci era amico e nemico a seconda delle giornate. Spazzapan veniva dalla Mitteleuropa, mentre noi venivamo dalla Francia». E Casorati? «Casorati era sempre un amico. Più autorevole, più anziano. Ci ha lasciato fare tranquillamente, veniva a tutte le nostre mostre. Noi non amavamo la sua pittura, perché era fondata su regole ancora classiche, mentre lui amava di più la nostra. Gli sono stato vicino fino all'ultimo giorno, come un figlio». Che esito ha avuto la prima mostra? «E' stata subito vista da Zanzi, da Bernardi, abbiamo avuto critiche interessanti sulla Stampa e sulla Gazzetta del Popolo. E anche successo. Ma i nostri quadri, in molti, destavano ilarità, perché erano diversi da come loro pensavano la pittura». Avete venduto? «Pochissimo. Si vendeva un quadro o due fra tutti, a ogni mostra. La gente non si fidava. Non c'era clientela per l'arte non borghese. Anche a Parigi era così». Ma avevate degli appoggi. «Avevamo l'appoggio di Persico e di Venturi, puramente critico. In un secondo tempo Gualino ha anche aiutato Menzio e Galante, per un soggiorno a Parigi. E soprattutto ci comprava i quadri». Che vita facevano i Sei? «Una vita di lavoro. Io avevo lo studio in corso Vittorio Emanuele, in una soffitta sopra l'alleggio di mio padre. Ogni tanto veniva a trovarmi Levi, o Menzio. Avevamo qualche contatto con Milano, con Genova, viaggiavamo assai poco. Persico era poverissimo. Noi venivamo da famiglie benestanti, ma non facevamo vita brillante. Non facevamo i pittori della bohème. Nessuno di noi voleva essere l'artista col fiocchetto, facevamo una vita più moderna. Si può dire che vivessimo di pittura: non materialmente, ma spiritualmente». Quali quotazioni avevano i vostri quadri? «Poche migliaia di lire. Tre, quattromila. I quadri cari erano quelli di Grosso, che vendeva i suoi nudi per un milione. Non erano ancora una merce, i quadri». Quando avete cominciato a vendere? «Per una piccola élite, subito. Ma perché la gente si interessasse è stato necessario il dopoguerra». E i Sei non c'èrano più. Perché il gruppo è durato così poco? «Perché i raggruppamenti di questo genere sono tutti durati poco: anche il cubismo, in Francia. Dopo tre, quattro anni, ognuno va per la sua strada. Prima eravamo uniti da questa idea comune, di dare una spolverata all'arte moderna italiana, poi abbiamo avuto interessi diversi. E' morto Chessa, ci siamo trovati in tre, Levi, Menzio e io. Siamo rimasti legati fino alla fine, dall'amicizia. Sono amicizie che trascendono la discussione». Ci sono stati screzi nel gruppo? «Qualche invidia, uno per l'altro, verso chi riusciva di più. Ma non ci siamo allontanati per screzi di carattere pratico. La pratica contava poco, perché non c'era denaro; e solo quando arriva il denaro arrivano gli screzi». E che cosa vi ha tenuto uniti, finché è vissuto il gruppo? «Il legame fra Gualino, Venturi e i Sei era un legame affettivo, logico. Il pensiero e l'arte, in quegli anni, formavano una cupola dorata, su Torino». La cupola si è dissolta, l'oro è rimasto. La mostra dei Sei ce lo riporta da oggi alla luce. Giorgio Calcagno // mondo artistico nella Torino degli Anni 20 Il teatro di Gualino grande mecenate La musica di Casella, il cinema di Gromo Paulucci ritratto da Menzio con la dedica: «All'amico Paulucci questo brutto ritratto in cambio della sua bella e buona compagnia Francesco Menzio Paris 23-3-928» Qui sotto, un autoritratto di Menzio del 1928 Ai centro, jessie Boswell in un autoritratto del 1929 Altri due autoritratti del Gruppo dei Sei Sopra, Cario Levi in un dipinto realizzato nel 1930 Qui a sinistra, Nicola Galante. La tela è del 1963