Trump contro Toro Seduto di Franco Pantarelli

Il re dei palazzinari (e di Atlantic City) fa causa agli Indiani GiOCO P'AZZARDO Il re dei palazzinari (e di Atlantic City) fa causa agli Indiani Trump contro Toro Seduto «I casinò delle riserve fanno concorrenza sleale ai miei. Sono discriminato» La risposta dei pellirosse: pensi piuttosto alle sue magagne matrimoniali NEW YORK NOSTRO SERVIZIO La nuova guerra che gli indiani d'America sono chiamati a combattere non è sulle praterie ma in tribunale. Il nemico non è il generale Custer ma nientemento che Donald Trump, il costruttore di New York famoso tanto per i suoi grattacieli quanto per le sue vicende mondane. I suoi avvocati l'altro giorno hanno denunciato la Niga (National Indian Gaming Association) per «concorrenza sleale», ma il vero obiettivo della causa è il governo di Washington e il suo atteggiamento «discriminatorio» in favore appunto degli indiani. Che Washington potesse ricevere un'accusa di favoritismo nei confronti di questa specie di personificazione del senso di colpa collettivo che sono le popolazioni indiane, spogliate di tutto dal «progresso inarrestabile», era decisamente imprevedibile. Ma Donald Trump, come si sa, di cose prevedibili non ne fa. La pietra dello scandalo sta nel business legato al gioco d'azzardo, al quale lui partecipa con tre casinò che possiede ad Atlantic City. Recentemente ha fatto un po' di conti e ha visto che quei tre casinò - il «Plaza», il «Trump's Castle» e il «Trump Taj Mahal» gli rendono ogni anno un incasso di 920 milioni di dollari. Non è una somma da buttar via, ma guardando i conti della Niga (85 tribù, 67 casinò sparsi in 18 Stati, incasso annuo 6 miliardi di dollari) la sua coscenza si è ribellata. Come è possibile che quei pezzenti mettano insieme un giro di denaro con nove zeri e lui, il grande Trump, debba accontentarsi di una cifra che si conta soltanto in milioni? Finché la concorrenza era quella del Nevada, dall'altra parte degli Usa, le cose andavano bene: a Las Vegas i viziosi dell'Ovest, ad Atlantic City quelli dell'Est. Ma ora, con le case da gioco indiane che si estendono in tutto il territorio (l'ultima quella dei «Mashantucket Pequots» nel Connecticut), non si vive più, ci vuole un freno. Così, dopo una faticosa ricerca, i suoi avvocati hanno trovato il cavillo: l'attività delle tribù indiane nel gioco d'azzardo è regolata dall'«Indian Gaming Regulatory Act», una legge federale del 1988. E questo dicono gli avvocati di Trump - è discriminatorio nei confronti dei singoli Stati. Non c'è l'articolo 10 della Costituzione a proteggerli? Come si può calpestare così impunemente la loro autonomia? Indignato da questa palese espressione di autoritarismo del governo centrale, Trump ha presentato la sua denuncia, che infatti ha come bersaglio sia la dirigenza della Niga che il segretario agli Interni Bruce Babbitt. Le possibilità di vittoria di Trump in questa battaglia sono date per scarse, visto che proprio in merito all'autorizzazione del casinò del Connecticut la Corte suprema ha avuto modo di pronunciarsi, e infatti Michael Anderson, del National Congress of American Indians, ha liquidato l'iniziativa con un «Mister Trump farebbe bene a occuparsi dei suoi accordi prematrimoniali con Miss Maria Maple, invece di imbarcarsi in qustioni che non è in grado di capire». Ma a sentire chi lo conosce bene questa sua iniziativa si spiega con la tremenda «crisi di liquidità» che sta attraversando. Franco Pantarelli