Confusi gli eredi di Nenni

6 La Fondazione si interroga sul socialismo. Il presidente Tamburrano «Siamo poveri, non scemi» Confusi gli eredi di Nenni La figlia Luciana-, c'è molta ipocrisia ROMA. «Allora, cosa stanno decidendo quelli là? Scusate, non è per invadenza. E' che sono la figlia di Pietro Nenni». E Luciana Nenni se ne sta lì, col suo crocchio in testa, la sua erre pizzicata, i suoi vestiti e i suoi modi perbene. Lì in piedi, come un'ultima vestale del Socialismo, sulla porta della fondazione che porta il nome di suo padre, in un appartamentino di via del Corso. Di fronte, il palazzaccio del partito che da alcune ore ospita la sfida finale fra craxiani e non. La signora Luciana è sulla porta perché, dice, non sopporta il fumo. E di fumo ce n'è parecchio alle sue spalle, nella sala dove il presidente Giuseppe Tamburrano ha chiamato a raccolta un bel pezzo di intellighenzja socialista per decidere se la fondazione Nenni debba staccarsi dal partito oppure no. Davanti alle pareti affollate di ritratti di Nenni - Nenni con Mao, Nenni contro De Gasperi, Nenni da solo - sfilano eredi più o meno legittimi. Il professor Giannini, l'uomo dei referendum, curvo e bonario, aggrappato al bastone d'ordinanza mentre parla di «funzione del socialismo, oggi». Scaparro, Landolfi, il presidente della Rai Walter Pedullà. I giornalisti Emiliani e Gismondi. E poi Cattani, Pellicani, Anderlini. E Alberto Lattuada, col sigaro in bocca e la coppoletta in nuca. «Qui dentro vedo troppe teste bianche - dice il regista Marco Leto -. Questo partito è destinato all'estinzione, ragazzi. Oddio ragazzi, si fa per dire». La signora Luciana sorride e presta attenzione a tutti. Ma intanto non riesce a scordarsi che dall'altra parte della strada, in quello stesso momento, si sta decidendo la sopravvivenza del partito di suo padre. «No, giornate così non ne avevo mai vissute. Le battaglie di un tempo erano politiche: il Fronte, il divorzio. Adesso invece... Vedo la cattiveria negli occhi di persone che magari hanno approfittato degli anni del malgoverno per farsi la seconda casa e ora si atteggiano a moralisti». Dal palazzo di fronte arriva Michele Achilli, con notizie fresche. Breve dialogo con la platea: «Sugli inquisiti Benvenuto è duro». «Meno male». «Fra i vecchi, solo Acquaviva si è schierato per il cambiamento. Una sorpresa...» «Macché sorpresa!» E giù risate. La signora Nenni non ride. Guarda una foto vicino allo specchio dell'ingresso: suo padre vecchio, che cinge il collo di una bambina. «Lui era un uomo che quando veniva battuto si faceva da parte, si ritirava a Formia per un po'. Non si può nuotare contro vento». In sala, adesso, sta parlando Tullia Carrettoni, che racconta come a Mantova la gente per strada le rinfaccia di essere socialista «e non serve a niente dirgli che me ne sono andata nel '66». Speranza e impotenza si mischiano negli interventi degli intellettuali. «Siamo scemi?» grida a un certo punto il professor Giannini. «No, siamo poveri», gli risponde Tamburrano. E Giannini: «Ma i quattrini non servono a pensare». Si parla del nuovo simbolo, pare una rosa. «Via i fiori - si ribella Lattuada e torniamo alle origini: libro, falce e martello». E Tamburrano racconta di quando dieci anni fa, in direzione, contestò la decisione craxiana di cambiare il logo del partito: «Proposi un referendum. Mi guardarono tutti, senza dir nulla. Poi si girarono verso Craxi. Lui scrollò una spalla. Fui seppellito da un coro di "noooo"». Alla fine la Fondazione decide di rimanere nel partito, perché sembrerebbe un tradimento andarsene proprio adesso. E' tardi. La signora Luciana si incammina per le scale: «La gente mi chiede: cosa penserebbe suo padre? Ecco, in questo disastro quel che mi resta è che il suo nome è rimasto pulito, intatto. L'altra sera ero a cena da amici, neanche socialisti. Hanno proposto un brindisi a Pietro Nenni. Perché?, ho chiesto. Perché se lo merita: magari ci fosse lui, oggi». Massimo Gramolimi Pietro Nenni, leader del partito socialista nel dopoguerra

Luoghi citati: Mantova, Roma