Per la prima volta dalla Serbia tutti i documenti sull'ideologia del massacro Dalla caccia al turco a oggi

Dal bieco eroe Marko a Grujo detto il sadico: sangue e nazionalismo Per la prima volta dalla Serbia tutti i documenti sull'ideologia del massacro. Dalla caccia al turco a oggi ~m\ PARIGI I L concetto di «pulizia etI nica», inteso come ideolo1 già politica, sarebbe nato _*J insieme al progetto di una «Grande Serbia» opposta alla dominazione turca. E questo è esattamente il contrario di ciò che affermano il presidente Cosic e gli storiografi serbi. In altre parole: la pratica dell'Etnicko ciscenje, cinicamente adottata per consumare la tragedia jugoslava, sarebbe molto più antica del genocidio perpetrato in Croazia durante la seconda guerra mondiale, sotto il regime filonazista di Ante Pavelic. A testimoniarlo sono i 25 documenti riportati in Le nettoyage ethnique. Documents historìques sur une idéologie serbe (La pulizia etnica. Documenti storici su una ideologia serba), appena uscito da Fayard. Gli autori, Mirko Grmek, Marc Gjidara e Neven Simac, di origine croata, ricostruiscono la cultura dei remoti antagonismi che, esacerbati dai due conflitti mondiali e dal regime comunista, stanno a monte degli attuali massacri nei Balcani. Di fronte agli scenari delle più antiche ballate popolari serbe, come quella intitolata Le reliquie della croce, le carneficine raccontate dalle coeve Chansons de geste sembrano giochi da ragazzi. Sgozzamene di turchi mentre le fiamme inceneriscono i loro villaggi, squartamenti di «maledetti ebrei» accusati di cannibalismo e neonati messi tra due tizzoni ardenti, fanno da sfondo alle imprese di Marko, l'eroe nazionale serbo, che non esita a troncare le braccia e a strappare gli occhi alla fanciulla che rifiuta di sposarlo. Ma c'è chi lo supera in sadismo. Il guerriero Grujo assapora infatti il suo vino dopo aver appiccato il fuoco al corpo della fidanzata che l'ha tradito: «E l'amata gli fece da candela», conclude l'anonimo poeta. Col passar dei secoli, mentre da noi quelle gesta diventavano oggetto di poemi eroicomici, nel groviglio di etnie dell'ex Jugoslavia, seguitavano a tramandarsi e a funzionare come feroce molla patriottica. Nel capolavoro della letteratura serba, un poema che tratta la lotta di liberazione dal giogo dei turchi, pubblicato nel 1847 e considerato una guida morale per il Paese, lo spirito bellicoso conserva purtroppo gli stessi risvolti belluini. La corona della montagna del poeta Petrovic Njegos (1813-1851), principe del Montenegro nonché vescovo ortodosso, è un inno al nazionalismo più sfrenato, un breviario di odio interetnico. I delitti più orribili, accompagnati da invettive contro l'Islam e dalla glorificazione delle carneficine da parte delle autorità religiose, seguitano ad attizzare l'odio dei cristiani ortodossi contro i musulmani. Quanto ancora influiscano l'antica poesia epica e un'opera diventata un classico commentato a scuola in una regione come la Serbia, l'ha dimostrato nel novembre scorso la deposizione di Borislav Herak, il giovane che ha confessato sei stupri e ventinove omicidi. Dal suo racconto è emerso che, nei massacri, le mo¬ dalità dei cetnici non sono tante cambiate, che l'uso ricorrente di termini serbi come ciscenje e ocistìti (pulire) è il frutto dì un indottrinamento di carattere politico legato a un movimento che, risolto il problema turco, si sarebbe poi dedicato all'eliminazione delie altre etnie. «Dopo che, nel 1807, i serbi ebbero conquistato e pulito Belgrado dai turchi, il consiglio si trasferì da Smederevo a Belgrado», scrive Karadzic, nel 1860, in una monografia sul consiglio di governo di Karadgeorge, fondatore della dinastia reale serba, che ideò e mise in pratica il concetto di ((purificazione» etnica. Quella prima «pulizia» interessò, nel 1807, 200 famiglie turche che non s'erano volute convertire. «Pieni di rancore, i serbi, anche dopo l'ordine di cessare il fuoco, li sgozzavano ovunque si trovassero senza risparmiare donne e bambini. La carneficina è durata due giorni. E con l'occasione sono stati cacciati tutti gli ebrei e i collaboratori dei turchi», riferisce Nenadovic, biografo del re. Da allora, i termini ciscenje e ocistìti sono stati sempre più spesso utilizzati da scrittori, uo¬ mini politici, autorità religiose e militari interessati al progetto di una Serbia pura. Un piano per la realizzazione della Grande Serbia, redatto nel 1844 dal ministro Garasanin, prevede una politica di affermazione diplomatica e d'espansione con l'obiettivo di ricreare l'impero serbo medievale com'era prima della sconfitta di Kosovo. Propaganda, integrazione e controllo al fine di rendere omogenee le popolazioni «liberate»: questi i punti che lo caratterizzano. Sessantanni dopo quel progetto può contare sull'organizzazione clandestina La mano nera (che ha per motto «L'unione o la morte» e come insegna un teschio su fondo nero) e sul movimento paramilitare Tchetnik, utilizzato nei confronti di chi dubitava del programma panserbo. Nel 1917, il cambiamento di frontiere nei Balcani fa nascere speranze di uno Stato indipendente della Jugoslavia o comunque di un regno serbo con una Costituzione democratica. Ma la Dichiarazione di Corfù, firmata da governo serbo e comitato jugoslavo, che prevede la formazione di una monarchia costitu¬ zionale raggruppante serbi, croati e sloveni sotto la monarchia Karageorgevic, solo apparentemente viene rispettata. Nel periodo tra le due guerre, osservatori stranieri e giornalisti lanciano l'allarme dichiarando amaramente il loro ruolo di ((testimoni impotenti» di fronte alle violazioni quotidiane degli accordi dell'armistizio e alle persecuzioni della polizia. Per una grande Serbia omogenea, il manifesto dei cetnici, redatto nel 1941 da Stevan Moljevic, rilancia la serbizzazione a oltranza alla vigilia della disfatta dell'armata jugoslava e di massacri che, questa volta, vedono in primo piano anche i croati ustasha. Agli occhi dei nazisti, sono comunque la Serbia e Belgrado i primi Judenfrei (liberati dagli ebrei) in Europa. Eppure i documenti che testimoniano l'infittirsi delle «pulizie» su musulmani e croati negli anni 1941-44 sono tristemente eloquenti. Mezzo secolo dopo, passata la parentesi della dittatura di Tito, nella situazione di crisi che vede defilarsi la Slovenia e la Bosnia-Erzegovina, in situazione di debolezza Serbia e Croazia, il progetto panserbo rispunta attraverso il Memorandum dell'Accademia delle Scienze di Belgrado, nel 1989. Il resto è storia recente. Che nella predica pasquale di due anni fa Ù Patriarca ortodosso serbo abbia evocato i «mostri» ustasha dichiarando che «dimenticare un crimine è un nuovo crimine», non è stato - si chiedono gli autori di Le nettoyage ethnique - un modo di attizzare l'odio? Ma c'è anche l'altra Serbia, una intelligencija democratica che fin dall'inizio del secolo ha rifiutato la politica espansionistica e i suoi metodi. A costituirla sono pochi ma coraggiosi Bogdanovic che non esitano a denunciare il «folle» Milosevic e il presidente Cosic «responsabili del dramma». Paola Decina Lombardi Dal bieco eroe Marko a Grujo detto il sadico: sangue e nazionalismo anche nella tradizione A sinistra: Tito A destra: il volto scheletrico di un prigioniero Nella foto grande: croati in marcia verso il campo di concentramento