Miti balcanici delle stirpi guerriere di Enzo Bettiza
Per la prima volta dalla Serbia tutti i documenti sull'ideologia del massacro. Dalla caccia al turco a oggi liiiiill Miti balcanici delle stirpi guerriere E' tutt'altro che facile rintracciare il bandolo dei genocidi balcanici, ai quali popoli e razze più e meno affini, tutti uniti nel culto della guerra e della virilità militare, turchi, serbi, montenegrini, croati, macedoni, albanesi, greci, bulgari, hanno dato un loro tributo di sangue di volta in volta o come carnefici o come vittime. Il primo bandolo mitico potremmo ritrovarlo addirittura nei poemi omerici; poemi per qualche verso prebalcanici, belluini, sanguinari, in cui la guerra, il duello, l'assedio, il saccheggio, la morte del nemico, la distruzione dei suoi beni e della sua città, sono sentiti, rappresentati e cantati come il momento più alto e più vitale dell'esistenza umana. Il serto della montagna di Petar Njegos, sovrano e poeta del Montenegro, anzi il massimo fra i poeti di lingua serbocroata, non è alla sua maniera una sorta di miniepos omerico in cui lo scontro crudele fra turchi e montenegrini, chiamati sempre «serbi» nel poema, sembra evocare la lunga guerra tra troiani e achei? Come in Omero anche in Njegos lo stesso sentore di sangue e di gloria, la stessa visione di aurore impassibili sopra l'eccidio che sta per compiersi, lo stesso afrore fumigante di spiedi e di montoni arrostiti durante le veglie nei bivacchi a un passo dal nemico. La piaga mai rimarginata dal 1389 nell'anima guerriera e frustrata del popolo serbo non è l'omerico massacro sulla piana del Kosovo, la leggendaria sconfitta, simile a un duplice genocidio simultaneo, in cui perirono il sultano turco e il re slavo e da cui s'iniziò il declino dell'impero medievale serbo e l'espansione ottomana nei Balcani? Non a caso alla tragedia e agli orrori della battaglia del Kosovo l'epica popolare serba ha dedicato la sua lirica più intensa, la Kosovska devojka, «la fanciulla del Kosovo», mirabilmente tradotta nei Canti illirici da Tommaseo e tanto ammirata da Goethe, da Byron e da Puskin. In tutto questo c'è già indubbiamente un presagio di «pulizia etnica», di cui, come vediamo in Bosnia al giorno d'oggi, il triste monopolio non può essere attribuito soltanto agli ustascia del regime profascista croato di Ante Pavelic. Anzi, si può dire che nella tradizione colta, moderata, transigente del nazionalismo storico croato (Strosmajer, Gaj, Supilo, Trumbic, Radic, Maeck, lo stesso cardinale Stepinac) gli eccidi antiserbi comandati da Pavelic e da Kvaternik fra il 1941 e il 1944 segnarono una cesura brutale, balcanica, «turca»: nella prima linea del genocidio non troviamo infatti né i croati di Zagabria, né quelli dell'Istria o della Dalmazia ma i croati più guerrieri e più militanti dell'Erzegovina che avevano conosciuto il dominio ottomano. Ancora oggi ve¬ diamo questi croati d'Erzegovina ritagliarsi una loro fetta di «pulizia etnica» sulla pelle dei musulmani, paradossalmente più consanguinei ai croati che ai serbi, nell'ambito della più vasta e più sistematica «pulizia etnica» grandeserba. Cos'è propriamente questa pulizia etnica alla balcanica? Lo storico belgradese Andrej Mitrovic ci ricorda che essa appartiene fisiologicamente, oltreché storicamente, «a tutti i grandi movimenti nazionali balcanici, in Grecia nel 1830, poi in Serbia, nel Montenegro, in Bulgaria». Indubbiamente il prolungato contatto con l'asiaticità ottomana, con i costumi ottomani, con le crudeltà e le esecuzioni di massa ottomane, ha avuto un suo nefasto effetto pedagogico su questi popoli duri e fieri, nati più per la guerra che per la pace, nella quale turchi e austriaci, quando non li avevano nemici, trovavano i loro migliori generali e le loro truppe scelte. I famosi giannizzeri della Sublime Porta erano quasi tutti di origine balcanica, slavi, greci, albanesi; i guardiani dell'impero austriaco lungo i confini con l'impero ottomano, i cosacchi degli Absburgo, i contadini-soldati narrati da Crnjanski, erano tutti serbi. E' su tale sfondo guerresco arcaico, epico, pastorale, tipico di queste terre così varie nella loro uniformità battagliera, che nei secoli si sono stagliati eccidi multipli, stermini religiosi, interminabili cicli di vendette generazionali. La sete di spazi etnici «purificati» in una regione territorialmente ristretta, tutta intersecata di grovigli razziali e confessionali, ha potenziato nei secoli odi, diffidenze, ostilità e disprezzi atavici. Quando si parte di tanto in tanto nella guerra santa contro il nemico vicino, che magari parla la stessa lingua ma non professa lo stesso Dio, è pogrom, è assalto senza pietà contro uomini, donne, bambini, case, campagne, monumenti, chiese, scuole, ospedali: è genocidio e memoricidio insieme. L'alieno deve essere sradicato dalla faccia della terra per sempre. Hitler e Stalin, maestri di sterminio genocida, di faraoniche purificazioni di classe e di razza, di spostamenti forzati di popolazioni e nazioni, hanno aggiunto un tocco di spietatezza moderna e pianificata alle più ancestrali pulsioni etniche oggi riemergenti dalle viscere della ex Jugoslavia. Non si dimentichi poi che lo stesso georgiano Stalin proveniva da quella Balcania periferica dell'impero russo che è il Caucaso, dove le vicendevoli «pulizie etniche» in corso fra azeri, armeni e altre etnie semiasiatiche ripetono alla lettera, con impressionante puntualità e crudeltà, i medesimi pogrom che lacerano le stirpi jugoslave. Enzo Bettiza
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