Nemico pubblico n° 1 per colpa di una foto

Nemico pubblico n° 1 per colpa di una foto Nemico pubblico n° 1 per colpa di una foto NEL MIRINO DEI CETNICI QUANDO è troppo è troppo. A febbraio, dopo due mesi in una prigione di Belgrado, tre attacchi contro la casa dei genitori e continue telefonate con cui minacciavano di sgozzarlo come un maiale, Bojan Stojanovic ha deciso di fuggire dagli orrori del nazionalismo serbo. Adesso, vive in Olanda, come migliaia di altre persone che si sono lasciate alle spalle le violenze dell'ex Jugoslavia. Il ventitreenne Stojanovic, tuttavia, non è un profugo in cerca di asilo come tanti altri. L'anno scorso, il giovane fotografo di Belgrado è apparso sulle prime pagine dei principali giornali dì tutto il mondo con le immagini di un poliziotto serbo che giustiziava sommariamente un musulmano a Brcko, una cittadina della Bosnia settentrionale. La fotografia è stata scelta dalla «World Press 'Photo» ed è stata premiata ad Amsterdam. Le foto risalgono al maggio '92, quando il mondo era ancora all'oscuro dei campi di concentramento, degli squadroni della morte e degli stupri di massa. Furono tra le prime a mostrare le sconvolgenti pratiche serbe della pulizia etnica. Fecero grande impressione e contribuirono alla messa al bando della Serbia. Ma, per i nazionalisti serbi, quelle fotografie trasformarono uno sconosciuto e occasionale «free-lancer» della «Reuter» in un vero e proprio traditore. Un buon serbo non scatta foto dei crimini di guerra dei suoi compatrioti. Da parte sua, Stojanovic pensava di fare solo il proprio lavoro: mostrare la realtà della guerra. «L'anno scorso, il 5 maggio, stavo tornando da Belgrado a Sarajevo. Vicino a Brcko, venni a sapere che stava succedendo qualcosa. Quando arrivai nel paese, vidi due cadaveri in una stradina. Presi le mie fotocamere e, un attimo dopo, un poliziotto e un soldato passarono di lì, spingendo davanti a sé due uomini ammanettati». Mentre l'agente puntava la pistola per uccidere uno dei due, Stojanovic scattò a ripetizione con la sua Nikon, senza avere il tempo di mettere a fuoco. Poi, temendo che gli sequestrassero la fotocamera, nascose il film in un calzino,. Ma il poliziotto e il soldato lo ignorarono. «Penso che fossero troppo impegnati nell'assassinio che avevano appena compiuto». Stojanovic decise di inviare immediatamente le foto alla «Reuter» a Belgrado. Ma appena uscito da Brcko, notò qualcos'altro: un camioncino bianco, usato per il trasporto della carne, e un mezzo militare che lasciavano la strada principale. Li seguì e vide scaricare i cadaveri di molti civili, che vennero gettati in una fossa comune. «A Brcko e nei dintorni furono assassinati tremila musulmani», dice, con sguardo inquieto. «Eravamo là con alcuni soldati e uno di loro, soprannominato Adolf, aveva ucciso 600 persone. Ma non sono solo i serbi a essere colpevoli. Tutti ammazzano tutti in questa guerra». Quando le foto scattate a Brcko uscirono dall'ex Jugoslavia, cominciò ad avere paura. Sebbene la «Reuter» avesse cambiato il suo nome nelle didascalie, pochi giorni più tardi, un'equipe della televisione serba gli penetrò in casa. Il suo ritratto fu mostrato alla tv e 10 giorni dopo la pubblicazione delle foto, una bomba esplose davanti al suo portone. Una settimana più tardi, qualcuno sparò con un kalashnikov da un'auto in corsa. «Non ero in casa, ma mia madre li vide arrivare. Corse dentro. Nessuno era stato ferito. Contai 26 fori di proiettile nella parete». A settembre, Stojanovic ri¬ tornò a Belgrado. Aveva trascorso l'estate lavorando a Split, Dubrovnik e Sarajevo. La polizia Io interrogò perché era sospetto il fatto che con il suo cognome tipicamente serbo potesse lavorare senza problemi in Bosnia e Croazia. Gli toccò di sentire una bizzarra teoria su un presunto complotto. «Pensarono che lavorassi per i servizi segreti inglesi, l'M16. Le mie foto di Brcko erano nient'altro che propaganda occidentale e mi sarebbero stati dati 20 mila dollari per corrompere il poliziotto e convincerlo a uccidere il prigioniero». Quando la Cee inasprì le sanzioni contro la Serbia, la sua foto fu di nuovo mostrata in televisione, sovrapposta al grafico con le misure del boicottaggio. Ricevette mighaia di telefonate a casa. «Ti ammazzeremo come un maiale, traditore», si sentì dire. Poi, fu arrestato con l'accusa di aver tentato di assassinare una donna che neanche conosceva. Rimase in carcere per due mesi. «Mi picchiavano con bastoni di gomma e tentarono di farmi crollare con tre settimane di isolamento. Pochi giorni prima del mio rilascio, un carcerato provò a pugnalarmi con un cacciavite, durante l'ora d'aria. Non so chi fosse. Ma le guardie non si mossero. Sono sicuro che gli ordinarono di assalirmi». Tornò a casa ai primi di gennaio e scoprì che il suo materiale fotografico, 4000 negativi e il passaporto erano scomparsi. Con un amico, decise allora di fuggire e arrivò a Sofia. «Dato che non avevo un passaporto, attraversai il confine di notte, rifugiandomi sul tetto di un treno». Il 16 febbraio, venne a sapere dalla «Reuter» che la sua foto era stata prescelta dalla giuria del «World Press Photo». «Ero orgoglioso. E' la prima volta che un fotografo jugoslavo vince quel premio». Pochi giorni dopo, uno sconosciuto ha lanciato una bomba a mano contro la sua casa a Belgrado. Stojanovic ha deciso di chiedere asilo quando è arrivato in Olanda alla fine di febbraio, in tempo per ritirare il premio. Ora è sorvegliato dalla polizia: due uomini che parlavano serbocroato hanno tentato di rapirlo, ma lui è riuscito a gettarsi in un canale dall'auto in cui lo avevano gettato a forza. Hans Moleman Copyright «De Volkskrant» e per l'Italia «La Stampa» L'immagine del poliziotto che giustizia un musulmano ha fatto il giro del mondo La foto-choc di Bojan Stojanovic: un poliziotto serbo uccide a freddo un civile musulmano. A sinistra e sopra altre immagini di orrore nella Bosnia della pulizia etnica. [foto reuter-epa-ap]

Persone citate: Bojan Stojanovic, Hans Moleman, Stojanovic