Il «ritorno all'antico» di un grande innovatore
-m Leonardo Da Vinci lo conobbe a Milano e annotò i suoi trattati di architettura. Ma è sempre rimasto ingiustamente escluso dal novero deigrandi Il «ritorno all'antico» di un grande innovatore N SIENA ASTRO Francesco di Giorgio Ingiegniere», era conosciuto dalla tradizione senese: e non si può trascurare la sua giovanile occupazione come Operaio dei Bottini, cioè come responsabile della preziosa, complessa rete idrica sotterranea di Siena. Un tecnico, insomma: ma oggi questa sua immagine più ottocentesca, positivistica, di innovatore scientifico viene semmai un poco rifilata (più ragionevole, forse, leggere in chiave di sperimentazione mentale le sue macchine pre-leonardesche). E la suggestiva mostra di Siena offre un'immagine ben più frastagliata ed intrigante di questo irrequieto genio poliedrico. Certo non è altrettanto facile, rispetto alla seducente galleria di opere pittoriche e di sculture, presentare in «mostra» l'architettura del Martini. Anche perché bombardamenti (San Bernardino all'Osservanza, Siena), terremoti naturali ma anche umani, di pretenziosi architetti posteriori che hanno spesso snaturato i progetti originari del senese (Valadier, Duomo di Urbino) inquinano ogni prova. Francesco di Giorgio Martini pittore, scultore, architetto, fortificatore, cesellatore di candelabri e di angeli, sperimentatore di armi, attivo in tutt'Italia, chiamato a Napoli per far fronte alle scorribande dei saraceni e alla calata dei francesi, a Milano per dare a Galeazzo Maria Sforza un parere sul tiburio del Duomo (in compagnia dell'amico Leonardo): esiste un tratto comune fra tutte queste «maschere»? Piuttosto, esiste un unico Martini? Personalità irrequieta, sperimentatore, innovatore paradossalmente arcaicizzante, proto-manierista, come ha voluto una certa tradizione leggermente romanticheggiarne, innamorata di questo personaggio imprendibile, sfuggente, è effettivamente artista che rompe la gabbia angusta della «senesità», cosmopolita che valu¬ ta e reinventa gli influssi che vengono da altri mondi (per esempio la tensione muscolare di Pollaiolo o quella espressionistica di Donatello, le ermeticità di un Botticelli o le eleganze fredde di un Lippi) instancabile saggiatore, che ad ogni opera apre nuove strade e inediti capitoli alla propria biografia: «Egli sembra procedere per salti , considerando ogni occasione progettuale come un'avventura», scrive nel ponderoso catalogo Electa Manfredo Tafuri. Per esempio, Francesco è uno dei primissimi studiosi del «ritorno all'antico»; ma con i suoi quasi rilievi dà della romanità archeologica offre una lettura completamente originale, distorta dal proprio genio, insofferente a modelli preordinati, perfino ai propri. Volumi puri e strutture esibite, spiega ancora Tafuri, insistendo sulla poetica incomparabile del suo «graficismo» spoglio, violento, del suo «brutalismo», del «purismo quasi allucinato». Quasi un Adolfo Loos del Rinascimento, che viene ad urlare (d'ornamento è delitto» tra i fiorellini gentili di Botticelli e le pieghe preziose di Filippino. «Una poetica fatta di severità strutturale», di «inquietante nudismo», «volte ed archi che non sopportano la bellezza aggiunta», la pulchritudo sussidiaria. Addirittura, qualcosa di freudianamente «perturbante», di «onirico», ed anche chi riluttasse a leggere in modo così «psicologico» l'inquietudine sperimentale di Francesco di Giorgio, come potrebbe non rimanere non turbato da certe inequivocabili sintassi libere, dissonanti del suo costruire, per esempio nel completamento del Palazzo Ducale di Urbino (a confronto con le euritmie eleganti del Laurana) o con vistose deformazioni di volte e lesene in Santa Maria delle Grazie al Calcinaio di Cortona, nervosamente, per far tornare i conti tra l'interno e l'esterno? Ovvio, questi elementi dissimmetrici, quasi dissonanti (se eccessivo risulta il termine di comodo «espressionistici») si giustificano quando egli deve aggredire, in scultura, temi altamente patetici, come Deposizioni o desertiche solitudini di San Gerolamo, e allora anche Bellosi parla di «espressionismo feroce», di «frenesia drammatica» e addirittura di «una sorta di magma fangoso, una specie di fanghiglia di petrolio irakeno da cui si librano (...) forme di aerea leggerezza». Ma quando tutto questo avviene in architettura le motivazioni si fanno più inquietanti, ed insieme rivelatrici. Poliedrica intelligenza capace di «sperimentare i diversi registri sintattici» come suggerisce ancora "Tafuri, Martini predilige questa «musica geometrica dell'imperfezione», e si avvicina a quel gusto del non-finito che sarà poi del Cinquecento. Ma attraverso un singolare «arcaismo», che recupera anche certe solenni pulizie romaniche e le fa esplodere: ed in questo senso Tafuri parla di un «architetto albertianamente anti-albertiano», che usa e rovescia i suoi modelli. E' dunque possibile, oggi, guardare con occhi finalmente spogli di pregiudizi, di là dell'ottica progressiva dei «vincitori» fiorentini e^brunelleschiani, questo insofferente allievo di Vecchietta e del Taccola, la cui influenza raggiunge Bramante, Peruzzi, Giulio Romano e forse perfino Palladio? Marco Valloni |:i Il Palazzo Ducale di Urbino: al suo completamento lavorò Francesco Martini. La mostra di Siena documenta il suo genio di pittore-scultore-architetto |:i
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