Miglio: il mio Cefis segreto un genio che comandava male

Miglio: il mio Cefis segreto un genio che comandava male Miglio: il mio Cefis segreto un genio che comandava male IL PROFESSORE CHE SOGNAVA L'UOMO FORTE SMELANO I', che bella immagine quella del cesto. Ma l'uomo, Eugenio Cefis, è sempre stato geniale, molto acuto nelle "analisi. Il guaio è che non aveva capacità di comando...». Sul serio? «Sul serio. Malgrado le apparenze Cefis era soltanto un grande brav'uomo. Non come Craxi, con il suo decisionismo degenerato. Cefis no, anzi, che delusione: grande finanziere, ma non grande manager e, soprattutto, non il politico che cercavo io». Gianfranco Miglio, lo studioso, il «tecnico delle istituzioni» come ama definirsi. Alle spalle, tra gli Anni Sessanta e Settanta, una lunga, intensa collaborazione con Eugenio Cefis prima all'Eni, poi in Montedison. Un decennio in stretto contatto con il campione della «Razza padrona», il più forte e nobile dei boiardi di Stato, scomparso all'improvviso dalla scena italiana sedici anni fa, per un lungo, volontario e dorato esilio dalla scena del potere. Adesso Cefis ricompare a palazzo di Giustizia. Un giudice milanese, Dell'Osso, lo ha interrogato a lungo sul suo passato di presidente dell'Eni. E lui, paziente, ha risposto per undici ore per poi commentare Tangentopoli a modo suo: «E' un cesto - ha detto che contiene frutta, verdura e peperoni assieme: c'è il politico furbo, rimprenditore che voleva gli appalti, la mafia, la camorra. Lo spaccato di una certa Italia...». Già, a sentirlo parlare così Cefis sembra ancora l'amico, il collega, quasi il discepolo di quell'irascibile professore della Cattolica che, a metà Anni Sessanta, dopo aver sbattuto la porta in faccia alla de, entrava per la prima volta negli uffici dell'Eni. Un collaboratore potente, tanto da poter disporre, quando occorreva, dell'aereo del presidente. E quel professore si chiamava Gianfranco Miglio, per anni l'uomo a cui Cefis affidava i dirigenti, prima al l'Eni e poi in Montedison, perché studiassero la politica e imparas sero a starne lontani. Una bella esperienza? Certo, ma anche una delusione. Che volete. C'è chi ha paragonato Miglio ad un Voltaire alla ricerca, finora vana, del suo Federico il Grande. E l'immagine non le dispiace, vero? «Vero. Un tema dominante della mia attività è stato il problema del leader e quello della formazione della classe politica in una democrazia debole, consociativa. E mi sono imbattuto anche in Cefis. Anzi, fui io ad accostarmi a Cefis, quand'era presidente dell'Eni. No, io non conoscevo Mattei di persona, anche se, negli anni della Resistenza, era lui il generale del nostro gruppo della Cattolica». E perché un politologo come Miglio va a bussare alla porta di un manager come Cefis? «Perché allora volevo verificare se la formazione di una classe dirigente, di quella classe amministrativa che non si riusciva a fare con la mano pubblica, non potesse nascere nelle grandi aziende. Erano gli anni in cui si imponeva la teoria delle multinazionali». Ma Cefis voleva dire industria di Stato, razza padrona... «Allora l'Eni era il maggior gruppo privato italiano. Guardi, io già frequentavo la Montecatini e la Fiat. Sì, nessuno era più privato dell'Eni. E lì ho conosciuto molti uomini in gamba, gente che si è bruciata negli anni perché le aziende bruciano gli uomini assai più rapidamente che la politica. Magari i partiti avessero un ricambio di quel tipo». Ma che faceva il professor Miglio in un grande gruppo? E' vero che è stato l'eminenza grigia del principe, di un uomo pericoloso? «Sì, negli anni dell'Eni Cefis ha avuto l'occasione di diventare un grosso leader, il punto di riferimento per la politica economica del Paese. Ma non l'ha fatto». E poi? «E poi lui si è trasferito in Montedison, un gruppo diverso. Cefis voleva costruire un grande gruppo privato, i politici l'hanno soffocato. E lui non ha avuto coraggio. Ma perché corri tanto a Roma, gli chiedevo? E lui: ne ho bisogno. Già, il ricatto dei fertilizzanti, dei prezzi controllati». E che doveva fare Cefis? «Doveva capire che la classe politica non voleva una grande azienda chimica sana. Loro dovevano dilatare le aziende pubbliche, costruire un regime a loro esclusivo vantaggio. Il mio odio per l'economia pubblica è nato allora...». Ma, scusi, Cefis era legato ai politici... «Di questo non mi sono mai occupato». Eppure Scalfari la pensa in maniera diversa. E ritiene che lei fosse un po' la coscienza perversa di Cefis... «Qualche anno fa Scalfari mi ha detto: ho sbagliato nemico. Era Sindona l'uomo da combattere, non Cefis. Chissà se era sincero, Scalfari... In realtà Cefis ha perduto la sua battaglia con i politici. E poi è venuta la sconfitta industriale e finanziaria». Sembra quasi un uomo mite, il condottiero della razza pa- drona... «Lui, ad esempio, ha sempre calato le braghe nei rapporti sindacali. Ci vuole la pace sociale, mi diceva. Ma non possiamo tagliarci i cosiddetti, gli rispondevo. Era un uomo mite, un diagnosta acutissimo. Ma quando si trattava di agire, di uscire dal guscio, si defilava. No, non era un padrone, uno della razza padrona». E adesso? «Non ci vediamo da una vita. Lui sta a Zurigo, mi ha mandato un telegramma affettuoso quando ho presentato i miei libri. Io non ho mai frequentato i potenti in quanto tali. Anzi, temo di non averne conosciuto di veri potentes, in Italia. Ho incontrato Strauss, ma solo poco prima della sua fine. Peccato». Insomma, un leader forte non l'ha mai conosciuto? «No, l'ho sempre cercato, fin dai tempi di De Gasperi. Lui, in realtà, ho avuto il torto di cono scerlo troppo giovane. E i giovani stentano a riconoscere le vere virtù». E gli altri? Fanfani, ad esem pio? «Ho capito quasi subito che, die tro un'indiscutibile capacità pra tica, lui non era un leader. E il suo carattere non mi piaceva Non ho avuto, e mi dispiace, rapporti diretti con Gronchi e Tambroni». E Segni? «Sì, l'ho conosciuto. L'ho visto pochi giorni prima della catastro fe». Del piano Solo, insomma, De Lorenzo e il Sifar... «Sì, ero andato da lui al Quirinale con un giudice costituzionale, Jaeger, e volevo parlare di libri. E lui invece continuava a dirmi: ma lo vedi in che stato stiamo? Devo prendere delle decisioni, devo intervenire, ripeteva. E' stato un feeling forte, quello con Segni». Altri nomi, professore... «Ai tempi di Bassetti in Regione m'ero illuso del potere dei tecnocrati, dei manager da trasferire nella cosa pubblica. Ma lui ha accettato i consigli dei cattolici di sinistra, uno statuto paralizzante. No, non è un uomo di governo. Con lui mi ero sbagliato, con Craxi no». Craxi? «Io l'ho conosciuto all'Isap, Istituto per la scienza dell'amministrazione pubblica, quand'era un semplice consigliere comunale. E mi son detto: questo fa carriera. Ne ha fatta troppa». Eppure l'accusano di un flirt con Craxi... «L'avrò visto sì e no sette-otto volte. Negli Anni Ottanta lui si è interessato ai miei lavori sul leader. Purtroppo lui ha interpretato la cosa pubblica come un bene privato. Mi ha molto colpito la crescita illegittima e incontrollata del potere di Craxi. E mi ha fatto cambiare idea». In che senso ha cambiato? «Per anni mi hanno detto che l'uomo forte, in Italia, è destinato a trasformarsi in tiranno. Dopo l'avventura di Craxi mi sono reso conto che il pericolo esiste». E allora, professore, che ricetta propone? «Il federalismo. Un sistema di regole certe, ferree, direttoriali, quali solo la struttura federale sa consentire. Eppoi un capo di governo, si badi bene non un presidente eletto in forma diretta dal popolo. Altrimenti sarà il disastro». Non esagera? «Non sono un medico pietoso, ma un terribile presbite, che vede le cose con largo anticipo: e le racconta con fedeltà spietata, come un medico giusto. Quel che sta succedendo io l'ho previsto già nel '64, e tutti insorsero. Anche Andreotti. Ma avevo ragione io, politologo realista e spietato che non sogna mai, neanche la notte». Ugo Bertone La lunga collaborazione all'Eni e poi alla Montedison «Gli dicevo: perché corri a Roma? E lui: ci sono troppi ricatti...» E poi? «E poi lui si è trasferito in Montedison, un gruppo diverso. Cefis voleva costruire un grande gruppo privato, i politici l'hanno soffocato. E lui non ha avuto coraggio. Ma perché corri tanto a Roma, gli chiedevo? E lui: ne ho bisogno. Già, il ricatto dei fertilizzanti, dei prezzi controllati». E che doveva fare Cefis? «Doveva capire che la classe politica non voleva una grande azienda chimica sana. Loro dovevano dilatare le aziende pubbliche, costruire un regime a loro esclusivo vantaggio. Il mio odio per l'economia pubblica è nato allora...». Cefis era legato ai politici... «Di questo non mi sono mai pato». Eppure Scalfari la penmaniera diversa. E riche lei fosse un po' lscienza perversa di Cefi«Qualche anno fa Scalfari mdetto: ho sbagliato nemicoSindona l'uomo da combanon Cefis. Chissà se era sinScalfari... In realtà Cefis haduto la sua battaglia con i poE poi è venuta la sconfitta striale e finanziaria». Sembra quasi un uomo il condottiero della razzGianfranco Miglio e, in alto a destEugenio C Fanfani e Bassetti «Avevo sperato nei tecnocrati alla Regione Lombardia, ma mi sono sbagliato» Gianfranco Miglio e, in alto a destra, Eugenio Cefis A fianco, Antonio Segni «Con lui c'è stato un feeling forte: devo intervenire, diceva»

Luoghi citati: Italia, Lombardia, Montecatini, Roma, Zurigo