Lancia quattro ruote di nobiltà di Alberto Papuzzi

19 Le vicende della fabbrica torinese dal 1906 al '69 nel volume dell'Archivio Storico Fiat Lancia, quattro ruote di nobiltà Una saga di lusso, corse e aristocrazia operaia ETORINO OSSIMO in America, la storia della Lancia - dal 1906 quando nasce l'azienda al 1969 quando passa alla Fiat - sarebbe diventata un filinone hollywoodiano. Gli ingredienti spettacolari ci sono tutti: un affascinante capitano d'impresa nelle vesti dell'eroe, un figlio che non regge il peso dell'eredità paterna, una drammatica corsa automobilistica che segna la fine di una leggenda, contrasti famigliari, lotte tra industriali, la straordinaria scenografia di automobili capolavori di tecnica ed eleganza, dalla Lambda aU'Aurelia e, come contesto, un grande quartiere operaio, cuore del comunismo torinese. Poiché siamo a Torino e non a Detroit, invece del film abbiamo un solido e ricco volume prodotto dall'Archivio Storico Fiat e presentato ieri, al Museo dell'automobile: Storia della Lancia. Impresa Tecnologia Mercati. 1906-1969, edito da Fabbri, curato dagli studiosi Franco Amatori, Florence Baptiste, Maria Teresa De Palma, Giuseppe Berta, Duccio Bigazzi, Giancarlo Subbrero, con la collaborazione del giornalista Guido Rosani. All'origine della leggenda, Vincenzo Lancia (1881-1937), figlio di un ricco imprenditore alimentare. Studente indisciplinato, «invasato dalla meccanica», dalle finestre del suo palazzo poteva osservare nel cortile l'officina di un pioniere dell'auto, Giovanni Battista Ceirano. Nel 1898, a 17 anni, il giovane Lancia risulta assunto da Ceirano e con la ditta nel 1900 passa alla Fiat. Per otto anni è collaudatore e pilota, «conquistandosi la fama di guidatore più veloce del suo periodo». Nel 1906 Lancia costituisce la sua società automobilistica. Nel 1911 il trasferimento nello storico stabilimento di Borgo San Paolo: lavorare alla Lancia significava appartenere all'aristocrazia operaia. Il 1922 è l'anno della innovativa Lambda, prima vettura con carrozzeria portante. Presentata al Salone dell'auto- mobile di Londra, fece dire alla rivista Autocar: «Ha fatto di colpo invecchiare tutti i modelli esposti». Sarà prodotta per dieci anni, in tredicimila esemplari. E' arrivata la felicità, come diceva Frank Capra. Vincenzo Lancia frequenta l'alta borghesia torinese, suona il pianoforte; gioca a scacchi, sposa la segretaria, discute su Wagner con il maestro Franchetti, ma «in officina non esita a sporcarsi le mani», ama le tavolate, anche in compagnia dei suoi garzoni - tra i quali Battista Pinin Farina, di cui intuisce il grande talento -, gioca a bocce e simpatizza per i socialisti. Una personalità vincente così scintillante non poteva non pesare come un macigno sulle spalle del figlio, Giovanni Lancia, che prende in mano l'azienda automobilistica a 24 anni, nel 1948, in una fase sicuramente assai difficile: la vedova del fondatore aveva appena chiesto al governo l'autorizzazione a effettuare duemila licenziamenti e aiuti che arrivano sotto forma di commesse pubbliche, fra il 1951 e il 1953. Il grande errore di Lancia ju- nior - secondo lo storico Franco Amatori - è la decisione di lanciarsi nella «formula uno». Nasce nel 1952 una squadra corse, con Alberto Ascari e Luca Villoresi, strappati alla Ferrari. Vittoria alla Carrera Panamericana ('53), vittoria alle Mille Miglia ('54), ma i successi sportivi da un lato sottraggono risorse finanziarie e tecniche, dall'altro non sofìo sostenuti da una politica commerciale: «Il maggiore elemento di debolezza dell'avventura sportiva è rappresentato dalla sua scarsa congruenza con la generale strategia dell'impresa». Tutto crolla in una avvincente sequenza. Gran Premio di Montecarlo del 1955: al novantesimo giro la Lancia di Ascari vede la vittoria, la Mercedes di Moss è fuori corsa, ma alla chicane del porto Ascari arriva lungo e il bolide finisce in mare. Fine del sogno, la leggenda si spezza, e vengono a galla i segni di una crisi produttiva, fra contrasti tecnici e famigliari. Lancia decide di mollare: non eguaglierà il mito del padre. Ascari muore, provando una Ferrari sul circuito di Monza. Se avesse tagliato vittorioso il traguardo di Montecarlo, forse oggi racconteremmo un'al¬ tra storia. «Ebbe delle noie famigliari... Trovami qualcuno che mi acquisti la baracca - mi disse», così Aldo Panigadi ha raccontato la resa di Giovanni, al quale successe come amministratore delegato. «Sono stufo, cerca qualcuno a Milano. Io parto per il Brasile». Così fece, lasciando a Torino, a cavallo della via intitolata al padre, il grattacielo Lancia, progettato con la collaborazione di Giò Ponti, inaugurato in coincidenza con la malinconica fine della gestione familiare. Arriva Carlo Pesenti (cemento) ed è 1'«inarrestabile declino». Nel maggio 1958 incontra Valletta: «Le assicuro che al di sotto della 1100 io non scenderò mai», dice Pesenti, «Le assicuro che al di sopra della 1100 io non salirò mai», gli risponde Valletta. Subito dopo la Fiat produce il 1500, il 1800, il 1300, la 124, ecc. «Non avrei mai fatto lo stabilimento di Chivasso - si lamenta Pesenti - se avessi saputo che i programmi della Fiat erano diametralmente opposti a quello che mi era stato detto». Sarà vero? Chi lo sa. Però è uno straordinario «The End». Alberto Papuzzi , Ilfondatore, Vincenzo, innamorato di Wagner e della meccanica Il suo sogno finì in una mitica corsa a Montecarlo Greta Garbo nel 1922 al volante di una Lambda, la prima auto con scocca portante. A sinistra: l'ingresso della Lancia di via Caraglio 120