L'ex granatiere che pagava i partiti per conto di Mattei di Enrico Mattei

L'ex granatiere che pagava i partiti per conto di Mattei IL RITORNO DI MISTER X L'ex granatiere che pagava i partiti per conto di Mattei SE non fosse per il figlio Giorgio, che calca oggi le scene della finanza con Ligresti ed è identico a lui come una goccia d'acqua, chi ricorderebbe più la faccia di Eugenio Cefìs? Son passati sedici anni giusti da quando, carico di soldi (cento e più miliardi di allora), disgustato dalla «partitocrazia» che per un ventennio lui stesso aveva foraggiato e manipolato, indignato dall'insipienza dei politicanti, l'ex granatiere formatosi all'Accademia di Modena e appassionato di Clausewitz, uscì dalla comune per mai più ripresentarvisi. Bravo come Howard Hughes nello scomparire, l'ha ripescato ieri il giudice Dell'Osso, cui dobbiamo sincera gratitudine. E sapete perché? Perché la scomparsa di Cefis è uno di quei misteri della nostra storia contemporanea che forse, rivisitati tre lustri dopo, possono finalmente trovare una loro autentica chiave di lettura. Torniamo perciò a quel lontano 1977, già insanguinato dal terrorismo, ma non ancora dall'assassinio di Aldo Moro. L'ex granatiere, circondato dai suoi privati e mirabolanti «servizi di sicurezza», ex ufficiali dei carabinieri, spioni dell'ex Sifar di De Lorenzo, investigatori, microspie elettroniche, regna in Foro Bonaparte, dopo aver scalato la Montedison con il danaro pubblico dell'Eni. Il suo disegno era di entrare nel cuore della finanza privata italiana per scalzare il tradizionale establishment industrial-borghese, quello che lui chiamava il «Potere Torinese». Ma non solo. Dopo la' morte di un figlio, per una malattia incurabile, aveva cominciato a parlare sempre più spesso, amaro, dei destini dell'Italia, dove i comunisti crescevano, le Brigate rosse impazzavano e i politici da lui foraggiati in modo così pingue fin dagli Anni Cinquanta, balbettavano inerti e impotenti. Ce lo ha ricordato qualche settimana fa in un'intervista Leonardo Di Donna, le cui dichiarazioni sono probabilmente la ragione del rinnovato interesse dei giudici milanesi. «Cefis pagava ci ha detto Di Donna, cercando poi di smentire quanto testualmente avevamo riportato su La Stampa - ma criticava la partitocrazia. Pensava che il sistema dei partiti fosse ormai al collasso». Il distacco, la critica totale contro il sistema, si erano accentuati da quando Fanfani, il suo referente di quegli anni, miseramente fallito nella campagna contro il divorzio, non era riuscito a garantirgli un'amnistia, che lo I finala sce i so avrebbe messo al riparo da guai giudiziari per i fondi neri che aveva riversato ai partiti. Mattei, il suo maestro e il suo capo partigiano, consegnava le banconote affastellate nelle scatole di scarpe, come ha testimoniato Franco Briatico, uno dei suoi antichi collaboratori; Cefis inventò la ragnatela delle società estere e la speculazione sui cambi, sopravvissuta fino ai giorni nostri. Non più banconote, ma numeri di conti correnti. Ci ha raccontato Di Donna: «Fiorini (l'ex direttore finanziario dell'Eni, adesso in carcere in Svizzera, ndr) fu assunto all'Eni da Cefis e da Corsi proprio per fare speculazioni sui cambi... Il sistema di Mattei era molto più semplice, era una fase artigianale, anzi direi padronale». Ma l'amnistia che quell'incon- eludente di Fanfani non riuscì ad ottenere per lui, che pure l'aveva finanziato lautamente per la prima volta nel 1954 al congresso di Napoli, che gli amici missini e quelli comunisti (i più duri: Cossutta e Cervetti) non potevano dargli, fu soltanto una delle cause della sparizione di «Alberto», il vecchio partigiano che nel 1944 giganteggiava con questo nome di battaglia su «Albertino», il defunto ex ministro dell'Industria Giovanni Marcora, leader della corrente democristiana di «Base», inventata per l'appunto alla politica da Mattei e da Cefis. C'era dell'altro: l'Italia si disfaceva sotto i colpi del terrorismo, i partiti e i politici diventavano sempre più famelici, corrotti, incapaci, e nessuno faceva niente contro il caos. L'anno dopo sarebbe stato rapito e ucciso Aldo Moro. E' possibile che l'ex granatiere appassionato di Clausewitz e circondato di spioni di ogni risma prevedesse, o addirittura sapesse, ciò che stava per accadere? Ha scritto Piero Ottone, che per un certo periodo, da direttore del Corriere della Sera, l'ha avuto come quasi-padrone: «Cefis immaginava il terrorismo ancora peggiore..., perché egli imprestava ai terroristi la sua mentalità, i suoi metodi, la sua efficienza; cercava di indovinare che cosa evrebbero fatto e inconsciamente si metteva nei panni dei terroristi, pensava che cosa avrebbe fatto lui al loro posto e ne uscivano immagini agghiaccianti. Un terrorismo alla Cefis, con la capacità organizzativa di un Cefis, che cosa avrebbe combinato?». In quel periodo, Cefis era sospettato non tanto di una predilezione smisurata per una Repubblica forte, efficiente, ordinata, la Seconda Repubblica, quanto proprio di un golpe. Ed ecco la storia che ritorna. Si dice che domenica 18 e lunedì 19 aprile, con il referendum, sia stato abbattuto un sistema, anzi un regime, quello stesso che Cefis contribuì a far grande con i miliardi neri distribuiti a piene mani per un ventennio, ma che a un certo punto non potè più soffrire. Tra i vincitori referendari figurano di fatto anche i leghisti di Bossi e di Miglio, il professore, l'ideologo. Ma, sorpresa! Nel professor Miglio c'imbattiamo non oggi che draga, con scoppola e papillon, i corridoi parlamentari, ma già agli inizi degli Anni Settanta. Chi era il consulente politico superpagato del presidente della Montedison? Chi era l'uomo che supervedeva ogni strategia? Chi «formava» i top manager-, definendoli, tra sghignazzate malcelate, «La Sedidall'IUna Fascia dell'Assistentato»? Ma sì, quello stesso professor Miglio che oggi con qualche tono fascista dal sen fuggito assiste l'on. Bossi. Ecco allora che la storia ritorna. Il Cefis scomparso non era forse il Cefis frustrato nel tentativo di reinventare una Repubblica Gollista, se non Franchista o Salazariana, nel ricordo dell'Accademia di Modena o della caserma dove conviveva con commilitoni spilungoni come Gandolfi, Sette e Bernabei? Chissà. Fatto sta che i peggiori censori dei vizi sono quasi sempre i più viziosi. Leggiamo una pagina dal diario del giornalista americano Cyrus Sulzberger, datata 21 luglio 1959, dove la X sta per Cefis, un bel ritrattino: «Ho pranzato con Alvise Savorgnan di Brazzà (altro granatiere, ndr). Ha appena ereditato un grosso patrimonio da una ricca zia, così ha lasciato il suo impiego con Mattei ma rimane suo consulente. Mi ha detto cose interessanti sulle operazioni politiche di Mattei. X, un brillante manager, ma uomo sgradevole che beve troppo e va a puttane, era il principale "pagatore" di Mattei. Il suo incarico era comperare deputati. Otteneva ciò offrendo un incarico ben pagato in un ente di Stato, un incarico nel quale non c'era niente da fare. X controllava che votassero correttamente. In sostanza, X si occupava della parte finanziaria del particolare incarico di pubbliche relazioni di Brazzà, cioè influenzare i socialisti di Nenni o comperare il giornale Il Giorno». Alberto Staterà I finanziamenti occulti la scalata a Foro Bonaparte e i sospetti di golpismo Sedici anni fa se ne andò dall'Italia, «disgustato» Una fuga con molti misteri Eugenio Cefis è stato allievo e stretto collaboratore di Enrico Mattei

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