Kabaivanska un'Adriana tutta grazia e solennità

Torino: grande successo al Regio dell'opera di Cilea diretta con slancio da Daniel Oren, regista Fassini, protagonista il soprano bulgaro Torino: grande successo al Regio dell'opera di Cilea diretta con slancio da Daniel Oren, regista Fassini, protagonista il soprano bulgaro Kabaivanska, un'Adriana tolta grazia e solennità Intensa interpretazione, bravo Merighi, si risveglia anche l'orchestra TORINO. Grande successo al Regio per l'esecuzione dell'«Adriana Lecouvreur» imperniata sulla presenza di Raina Kabaivanska cui hanno fatto da degno contorno il tenore Giorgio Merighi nella parte di Maurizio, il basso Andrea Zanazzo come principe di Bouillon, il possente mezzosoprano Stefania Toczysca nella parte più spiccatamente verista della principessa di Bouillon, rivale di Adriana. Il tutto guidato con molto slancio e costante tensione da Daniel Oren che da qualche tempo ha smesso le maniere troppo fragorose per ammorbidire, levigare e cesellare le sonorità orchestrali con attenzione del tutto particolare. Il complesso del Regio gli ha risposto in modo egregio: questa orchestra, dopo anni di torpore, s'è finalmente risvegliata e sta mettendo a buon frutto le cure che la sovrintendenza, e un direttore stabile come Bruno Campanella, le dedicano ormai da molti mesi. Risultato, un'«Adriana» di pri- m'ordine davanti a cui s'è sciolto anche il pubblico un po' freddo delle prime, festeggiando tutti con applausi calorosi. Giunta alla fine di una gloriosa carriera, Raina Kabaivanska somma del .-epertorio verista si difende ancora con infallibile autorità, e se la voce vede appannata l'antica freschezza, il modo di usarla attraverso smorzature seducenti, scatti, un declamato scultoreo e acuti piazzati con invidiabile sicurezza, le permette di signoreggiare ancora come una vera regina del palcoscenico. La mitica Raina è anche, e prima di tutto, una grande attrice: bastava vedere l'altra sera con quale grazia mista a solennità, con quale apprensione mista a dolce abbandono s'aggirava, da sola, sul palcoscenico, alla fine del secondo atto, per spegnere i candelabri sul delicato accompagnamento orchestrale: tutti stavano col fiato sospeso, ammirando quel gesto quotidiano trasformato nell'espressione individuale di un personaggio, carico di segreta interiorità. Se quando non canta la Kabaivanska riesce a tanto, figuratevi quando apre bocca: basti dire che la parabola ascendente di Adriana, da attrice di successo, a donna innamorata, ad eroina che incontra con fierezza il suo tragico destino, è stata colta e realizzata d'istinto. Il pregio dell'esecuzione sta nella sua omogeneità. Gli altri cantanti non si lasciano schiacciare dalla protagonista, ma le tengono testa da pari a pari: Merighi ha uno squillo lucente e una pronuncia ottima, Zanazzo e la Chausson voci e presenza di grande peso; né è da meno la folta schiera dei comprimari. Sul podio Daniel Oren ha mostrato di intendere che i valori più alti della partitura stanno nella pittura dell'intimità, nella delicatezza dei sentimenti, nell'effondersi di un melodismo sostenuto da un'armonia trasparente e peregrina: il tutto screziato di brillantezza, attraverso i guizzi leggeri dei legni, perché l'immagine del Settecento che si aveva alla fine del secolo scorso comprendeva questi due aspetti: nostalgia per un mondo di buoni sentimenti e cornice di frivolezze brillanti. Le due Manon, Andrea Chénier, I quattro rusteghi di Wolf Ferrari, Le maschere di Mascagni, Maskarade di Nielsen so¬ no sulla stessa linea. Si tratta di un'ondata rievocativa che ha diffusione europea e che troverà la sua sublimazione nelle opere settecentesche e «mozartiane». di Strauss, il Cavaliere, Arianna, Capriccio e compagnia. Ora, certi accostamenti non si fanno neppure per scherzo; ma proprio come uno Strauss in diciottesimo il nostro Cilea sembra applicarsi alla nostalgia per il Settecento, al tema del teatro nel teatro, al gusto del divertissement e del pasticcio che lo trascina nel tremendo «Kitsch» della festa danzante, al centro del terzo atto: pagina ad effetto, d'una convenzione ostentata, che spiegazza malamente le superfici levigate e lisce altrove definite dal compositore nella sua delicatezza crepuscolare. Due parole sulla regia di Alberto Fassini e sulla scenografia di Pasquale Grossi che ha disegnato costumi in stile misto: alcuni settecenteschi, altri belle epoque, intrecciando il tempo dell'autore a quello delle vicende rappresentate: libero mescolio di fogge e arredi diversi che fa più confusione che chiarezza. Le scene, molto gradevoli, alludono al Settecento ed al teatro in cui si svolge l'esistenza della grande attrice Adriana Lecouvreur: tanto che alla fine, un po' cervelloticamente, invece di morire, l'eroina scompare sul fondo dove un boccascena rovesciato la vede affacciarsi su di una platea immaginaria, immersa nel buio: il mondo dell'aldilà? oppure un vero teatro che ha assistito alla rappresentazione-finzione della sua vita? Allo spettacolo ha preso parte un balletto con la coreografia di Fabrizio Monteverde che ha aggiunto altro cattivo gusto a quello della musica: ma quella scena è solo una caduta, sia pure vistosa, in una partitura go debilissima, sorretta da una dram maturgia infallibile nel libretto di Arturo Colautti tratto da Scribe. Paolo Gaiiaratì Raina Kabaivanska, una vera regina del palcoscenico un'attrice di grande fascino

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