Un passo in avanti tra le mine di Igor Man

Un passo in avanti tra le mine Un passo in avanti tra le mine Gli estremisti condannano i nemici all 'accordo ìlnìgoziato LAMPO di luce nel cielo corrusco del Medio Oriente. Quando sembrava che tutto fosse da rifare, ecco la buona novella: le trattative riprendono. Sono stati 15 giorni di alti e bassi; tra l'euforia e il disappunto. A euforizzare cancellerie e analisti era stato Rabin. Lo scabro generale-premier aveva dichiarato che Israele «è deciso a trattare coi Paesi arabi sulla base delle risoluzioni 242 e 338 dell'Onu (stabiliscono il principio: la terra in cambio della pace). Naturalmente aveva soggiunto -, questo vale anche per i palestinesi». Va detto che codesto principio, menzionato nella «lettera di Madrid», il governo di Shamir lo aveva accettato. Solo formalmente, tuttavia, poiché più volte il premier ex terrorista rifiutò, in fatto, la formula «pace in cambio dei territori», ostinandosi a riproporre, non senza iattanza: «pace in cambio di pace». Esplicitando, al cospetto della stampa internazionale, «a differenza del precedente governo» (son parole di Rabin) l'accettazione della 242 e della 338 come base della trattativa, il generale-premier ha rafforzato la propria credibilità. Agli occhi del mondo, di fronte all'opinione pubblica israeliana. Di più: accettando che la delegazione palestinese venisse anche ufficialmente guidata da Feisal Husseini, Rabin aveva mandato in pezzi un pesante tabù. Shamir e lo stesso Rabin avevano negato a I Husseini il ruolo di interlocu¬ tore diretto poiché egli è nato a Gerusalemme. Accettare che un cittadino palestinese di quella che per Israele è la capitale eterna e indivisibile, trattasse con gli israeliani, avrebbe significato incrinare quel dogma politico. Così han sempre argomentato i politici, di destra e non, in Israele. (Gli oltranzisti arrivano a dire che la presenza di Husseini al tavolo del negoziato rimetterebbe in discussione lo status di Gerusalemme). Senza abbandonarci all'entusiasmo, per altro spia commovente d'un lacerante wishful thinking di chi, arabo, scrisse che l'accettazione di Husseini era, in buona sostanza, il preludio al riconoscimento d'uno «Stato palestinese», pensammo anche noi che il dialogo di pace fosse uscito dal coma. Errore. Avevamo di¬ menticato che in Medio Oriente non bisogna mai fidarsi delle apparenze. A rammentarcelo, e brutalmente, sono stati gli integralisti di Hamas, i famosi 400 espulsi da Rabin nel Libano Sud. Venerdì scorso le 400 teste calde (e pensanti), vestita la tunica bianca e con regolare benda candida del martirio sulla fronte, si sono messe in marcia verso le posizioni israeliane. E' bastato un ferito a spengere la voglia (sempre che ci sia stata) di martirio. Sicché si scrisse che non era stata, quella, una partenza verso il paradiso. Epperò è riuscita a impedire una partenza. Importante. Quella dei palestinesi, degli arabi alla volta di Washington. Il 17'di dicembre del 1992, espellendo l'intellighenzia di Hamas che combatte la pace fanaticamente identificata co¬ me un «prodotto di Dar alHarb», il mondo degli infedeli, Rabin pensava di aver colto due obiettivi con un colpo solo: rafforzare se stesso; liberare l'Olp da un permanente ricatto. Al contrario, di fronte alla ondata di indignazione esplosa nel mondo islamico (non importa se spontaneamente o non), l'Olp, al pari di tutti gli arabi moderati, cadde nella retorica della condanna, della esecrazione d'un gesto, per altro contrario alla Convenzione di Ginevra. La Realpolitik fu sconfitta, il processo di pace entrò in stato comatoso. E avrebbe rischiato di rimanerci a lungo se non fosse che l'immobilismo, è pericoloso. Per Israele, per l'Olp. Entrambi hanno un disperato bisogno di trattare. Per ragioni differenti, scrive Flora Lewis, Rabin e Arafat cominciano a capire co¬ me sia di comune interesse «separare gli arabi dagli ebrei». Entrambi han capito che gli estremisti delle rispettive parti vogliono bloccare ogni processo di pace. Entrambi si rendono conto che così com'è la situazione è davvero terribile. I territori rischiano di diventare una moltiplicazione mostruosa di Soweto. «Nel problema palestinese risiede non solo il nodo della pace ma si manifesta il dilemma dell'immediato», scrive Zvi Schuldiner, fra i politologi israeliani forse il più pragmaticamente illuminato. Ma il problema dei problemi è nello stesso negoziato: non basta che riprenda, deve progredire. E in positivo. Nel caso contrario, gli Stati Uniti del giovine Clinton potrebbero essere tentati di «marginalizzare» il conflitto mediorientale per dedicarsi ad altri problemi ritenuti più urgenti (che so, la Bosnia). E dunque, per quanta «paura» possa avere Arafat di Hamas (la stessa che Mubarak ha dei suoi integralisti), rinunciare al negoziato avrebbe significato per al Walid (il padre) buttare nella latrina della storia ogni speranza di riscatto di coloro che chiama «figli della mia vita». Per Israele, il blocco della trattativa comporterebbe, fatalmente, il ritorno al fondamentalismo bellicista della destra. Entrambi, Israele e l'Olp (Rabin e Arafat), hanno compreso che l'alternativa al negoziato, alla lunga sarebbe un blasfemo bagno di sangue. Sicché divisi tutt'ora da infiniti steccati ne hanno saltato uno. Importante. Per incontrarsi, se non altro idealmente, sul sentiero minato della pace. Igor Man