Bagnoli l'operaio gentiluomo di Claudio Giacchino

L'allenatore dell'Inter racconta quarant'anni vissuti in campo e in panchina L'allenatore dell'Inter racconta quarant'anni vissuti in campo e in panchina Bagnoli, l'operaio gentiluomo Filosofo, riservato e umile detestagli sprechi, il lusso e considera l'esagerazione un grande male «Non credo allo scudetto, ma dobbiamo batterci per esser pronti se il Milan decidesse di regalarcelo» UN SAGGIO IN UN MONDO DI FOLLIE APPIANO GENTILE DAL NOSTRO INVIATO «Quando uno sa stare al suo posto e vive come gli pare, senza arrecare danno agli altri, beh, questa persona è la più felice del mondo». Oppure: «L'esagerazione non fa mai il tuo bene». O, ancora: «Vincere è bello, ma guai se affidi la serenità alla vittoria: ben altre, la famiglia, l'amicizia, il lavoro svolto con onestà, sono le cose che allietano la vita». Eh sì, Osvaldo Bagnoli è davvero l'Orazio del calcio: dove l'incontri, nell'universo miliardario, parossistico e paradossale del pallone, un uomo che ha fatto proprie la saggezza, la riservatezza e l'umiltà cantate dal poeta latino duemila anni fa? Lui, l'allenatore dell'Inter, si schermisce, con disincantata semplicità: «La penso così, perché dovrei nasconderlo?». Una domanda che avrà sentito sino alla nausea: lo scudetto è ancora possibile? «Non credo, a meno che il Milan proprio non voglia regalarcelo. Ecco, abbiamo una sola responsabilità: continuare a fare risultato per essere pronti a ricevere il dono, nel caso i rossoneri s'intestardissero a farcelo». Anche senza l'eventuale omaggio l'anno dell'Inter sarà ugualmente positivo? «Sì. Oddio, considerato quanto fu fallimentare l'ultimo (fuori dalle Coppe, grigio ottavo posto, ndr), ci voleva poco per combinare qualcosina di meglio». Però, la prossima stagione, con i Bergkamp, gli Jonk, i Dell'Anno, i tifosi pretenderanno tutto e subito. «E io dirò loro che anche le altre grandi si sono rinforzate e che alla fine vince soltanto uno». Verbania, Solbiate, Como, Cesena, Fano, Rimini, Verona, Genoa. Poi, a 57 anni suonati, la grande piazza. Milano s'è innamorata di lei, gli interisti l'acclamano, mai una protesta, nemmeno quando il Diavolo era a distanze siderali. «Abito sempre a Verona, faccio su e giù con Appiano Gentile, a Milano vado pochissimo. Poi, per me Milano è la Bovisa, il quartiere dove sono nato, dove vive mia mamma, nella stessa casa dove mi ha messo al mondo. Alla Bovisa ho gli amici, ci sono la vecchia trattoria "Speranza", il circolo famigliare. Peccato non poter andare più al circolo. Ospita un Inter club, come potrei mettervi ancora piede? Se la squadra andasse male metterei in difficoltà i soci». Però, visto che va bene... «Magari pensano che sono in cerca di facili applausi». Bagnoli mago della Bovisa. Oppure, Bagnoli gentiluomo. Appellativi graditi? «Beh, mago: può essere un'esagerazione o una diminuzione. Quanto al gentiluomo, non fa per me: io ho radici operaie, a 18 anni ero in fabbrica e sognavo di diventare calciatore professionista: a 30 ero un giocatore e sognavo un posto nella legatoria Mondadori di Verona». A Verona è arrivato lo stesso, ha trovato la gloria e i soldi del pallone. Quale la differenza tra l'allenare la provinciale e una grande? «E' solo un problema di targhe e di cortili. Cioè: con l'Inter e con il Verona ho fatto il ritiro estivo a Cavalese. Quand'ero con la squadra veneta in paese si vedeva qualche macchina con la targa della città scaligera, con l'Inter era strapieno di auto provenienti da ogni parte d'Italia. Poi, con il Verona, potevi uscire dall'hotel, andare a passeggiare: l'estate scorsa, dovevo accontentarmi di camminare nel cortile dell'albergo assediato dai tifosi». Lo stress? «Esiste se le cose vanno male». Allora non l'ha mai patito. «Al Genoa, giusto un anno fa, altroché se lo patii lo stress: gli insulti, la contestazione, il peggior ricordo della mia carriera». La difficoltà maggiore dell'allenare? «L'essere sempre esposto alla lode o alla stroncatura dato che tutti giudicano, a torto o a ragione, il tuo lavoro perché tutti pensano di sapere di calcio». Quarant'anni nel football: come sono cambiati giocatori, tecnici, presidenti? «In tutto. Cambiando la gioventù era logico cambiassero i calciatori e di conseguenza gli allenatori. Ai miei tempi vigeva un'autorità esasperata, ho avuto tecnici che trattavano i ragazzi come bimbi, che li controllavano di sera andando di casa in casa, che per punizione si facevano consegnare le chiavi delle auto. Oggi sembra Medioevo, ma allora... Ho sempre odiato questi sistemi e mai, dico mai, ho controllato la vita privata dei miei uomini. L'importante non è la scappatella, anch'io ne ho fatte, ma fare il calciatore seriamente: e, sul campo, si capisce subito chi è serio e chi no. Quanto ai presidenti, oggi ficcano di più il naso nelle cose della squadra: normale, considerata la monta¬ gna di soldi che cacciano». Dicono che quando Bagnoli s'arrabbia tremano i muri. «Bah, le solite infiorettature giornalistiche». E' superstizioso? «Cerco di non esserlo». Allora, la diceria che da quando ha la gamba ingessata non va più in panchina perché porta buono e l'Inter vince sempre? «Ma no, tant'è che il derby mica l'abbiamo vinto. Non vado in campo perché mi sembra di trasmettere alla squadra la sensazione di avere le stampelle». E' vero che tifava Juve? «Sì, da ragazzino, come tanti alla Bovisa: avevo una maglia bianconera e le scarpe "Parola"». Bagnoli, lei è ricco ma quando va alla Bovisa, per non disturbare la mamma ottantenne, scende in un alberghetti. Reputa uno spreco spendere soldi per un albergo di lusso. Vero? «Sì: insomma, se io la penso così, che male c'è?». Claudio Giacchino

Persone citate: Bergkamp, Jonk, Osvaldo Bagnoli