miei giorni Sciacallo

«Uccidere il "grande traditore" 1 per non perdere l'Algeria» Rompe il silenzio a Asunción l'uomo che 30 anni fa attentò alla vita di De Gaulle: da quella vicenda un best seller e il celebre film / miei giorni "Sciacallo PASUNCIÓN ER uccidere un uomo a sangue freddo ci vuole coraggio. Io l'ho fatto più di una volta, e so che non avrei esitato a premere il grilletto se fossi riuscito a inquadrare quel traditore nel mirino. Ma le cose andarono male, ed è il grande rimpianto della mia vita: non essere riuscito a ammazzare Charles de Gaulle». Sono passati trent'anni dal «giorno dello sciacallo», ma il killer ha ancora bene impressi nella memoria quei momenti. Era la fine del febbraio 1963: durante una parata militare il Presidente francese sfuggì per un soffio ai colpi del migliore dei sicari dell'Oas (Organisation de l'Armée Secrète), il gruppo di estrema destra che voleva vendicare a ogni costo il «tradimento» di chi aveva concesso l'indipendenza all'Algeria. L'attentato fallì, ma è entrato nella storia grazie allo scrittore inglese Frederick Forsyth e al suo bestseller II giorno dello sciacallo, da cui il regista Fred ^.Zinnemanri ha tratto un film tìltfettantp famoso. iftV " Nel rifugio dei mercenàri Nelle pagine del romanzo il misterioso killer viene ucciso dalla polizia francese pochi secondi prima che riesca a sparare a De Gaulle, e seppellito in una tomba senza nome alla periferia di Parigi. In realtà, lo Sciacallo è ancora vivo. Si chiama Georges Watin, ha 70 anni che si vedono tutti e vive in un povero e polveroso sobborgo di Asunción, la capitale di quel Paraguay che nei lunghi decenni della dittatura di Alfredo Stroessner è stato il tranquillo rifugio di mercenari, terroristi neri e criminali di guerra di mezzo mondo. «Tra il 1959 e il 1963 ho partecipato a sette diversi attentati contro De Gaulle. Ucciderlo sarebbe stato l'unico modo per non perdere l'Algeria, ma purtroppo non ci siamo mai riusciti» spiega Watin in un buon spagnolo che solo a tratti rivela ancora l'accento francese. Rintracciarlo e convincerlo a raccontare la sua storia non è stato semplice. Pochi sanno dove abiti, e lui parla malvolentieri: «Diverse persone che a quel tempo aiutarono l'Oas sono sta- te elette al Parlamento nelle ultime elezioni francesi. Non vorrei avere altri problemi». Alla fine la voglia di ristabilire la «verità» prende il sopravvento. «Il libro e il film raccontano un sacco di balle - assicura -, la realtà è stata diversa». A cominciare dal protagonista. Il killer solitario immaginato da Forsyth era un inglese specialista in omicidi politici a pagamento, che sullo schermo assunse il fisico atletico e il volto seduttore dell'attore Edward Fox. Georges Watin, invece, è un pied noir, come venivano chiamati i coloni francesi in Al- geria, un omone corpulento e claudicante. «Il nome in codice Sciacallo non è mai esistito precisa -, nel 1942 mi beccai due pallottole tedesche nel ginocchio sinistro, e da allora mi hanno sempre chiamato "lo zoppo". Non ero un mercenario, non ho mai ricevuto un centesimo dall'Oas, anzi: per aiutare la nostra lotta ho venduto tutte le proprietà della mia famiglia, mille ettari di eccellenti vigneti». La vicenda personale di Watin si confonde con la tragedia della guerra d'Algeria, una delle pagine più sanguinose del lun¬ go e doloroso processo di decolonizzazione africana. Dopo mesi di scaramucce, nel novembre 1954 i guerriglieri dell'Fln, il Fronte nazionale di liberazione algerino, scatenarono la prima grande offensiva. La reazione dei francesi fu immediata e durissima. «Avevo contatti con l'esercito dai tempi della Resistenza - racconta Watin - e quando mi proposero di collaborare con loro, accettai subito. Con una ventina di amici fidati creammo un gruppo paramilitare, quello che oggi chiamerebbero uno squadrone della morte. Mettevamo bombe nei caffè frequentati dagli arabi, torturavamo i prigionieri, uccidevamo i guerriglieri, facevamo sparire i corpi buttandoli in mare dagli elicotteri. Il nostro era contro-terrorismo: se uccidevano un bianco, dieci dei loro dovevano morire». In pochi mesi «lo zoppo» si fece la fama di assassino efficiente e spietato. «La mia arma preferita era il coltello; colpivo sem- pre alla gola: è il modo più rapido e silenzioso di uccidere spiega, e la voce ha un improvviso tono d'orgoglio -. L'ho imparato dagli arabi, gli europei hanno orrore delle armi bianche: devi avere stomaco per guardare negli occhi chi stai ammazzando». Come gran parte dei pieds noir, e del mezzo milione di soldati del corpo di spedizione francese impegnati in Algeria, Watin era convinto che la Francia potesse vincere la guerra se il governo si fosse deciso a andare sino in fondo. Arruolato dai golpisti Nel 1958 il sospetto che fossero in corso negoziati segreti tra Parigi e l'Fln scatenò una crisi politica che portò alla fine della TV Repubblica e al ritorno al potere di De Gaulle. Ma anche il nuovo Presidente voleva tirare la Francia fuori del pantano al¬ gerino, non prolungare ancora una carneficina inutile e ormai impopolare. Nell'aprile 1961 parte dell'esercito tentò un golpe, ma la maggioranza delle truppe rimase fedele al governo. I golpisti diedero così vita all'Oas, con lo scopo di uccidere il «grande traditore» per poter instaurare una giunta militare di estrema destra. Watin, che ormai viveva clandestinamente a Parigi, venne reclutato dal generale Raoul Salan, uno dei leader del fallito colpo di Stato. «Lo zoppo» divenne subito uno dei quadri più fidati e efficienti dell'organizzazione. «Mettevamo bombe nei giornali di sinistra come Le Monde e facevamo rapine per autofinanziarci - dice -, ma l'obiettivo principale rimaneva sempre De Gaulle. E a Petit-Clamart ci sfuggì solo per un soffio». Era la sera del 22 agosto 1962. Una talpa aveva informato l'Oas del tragitto che sarebbe stato seguito dall'auto del Presidente e dalla sua scorta. Un commando di nove uomini armati di mitra si appostò tra gli alberi che costeggiano quel lungo boulevard parigino. Ma si fece buio prima del previsto, e nessuno vide il segnale di avvertimento dato dal leader del gruppo, il tenente colonnello JeanMarie Bastien-Thiry. «La Citroen di De Gaulle ci passò davanti a 140 l'ora, e cominciammo a sparare troppo tardi - racconta Watin -. Riuscimmo lo stesso a colpire l'auto, e una raffica sparata da me passò vicinissima alla testa del Presidente, ma quando stavo aggiustando la mira il mitra si inceppò. A quel punto prendemmo le nostre auto e cominciammo a inseguire il convoglio, sparando fuori dei finestrini. Fu magnifico, quasi lo beccammo». Nel giro di poche ore, in tutta la Francia si scatenò una gigantesca caccia all'uomo sulle tracce del commando. Watin fu l'unico a non essere.arrestato. «Mi nascosi per undici giorni nella cantina di una casa sicura - ricorda -, tutti gli altri furono presi, e Bastien-Thiry venne fucilato qualche settimana dopo». Nel giro di pochi mesi i servizi segreti francesi riuscirono a decimare l'Oas. Agli inizi del 1963 l'organizzazione aveva ormai solo le forze per un ultimo, disperato tentativo. «Sapevamo che alla fine di febbraio De Gaulle avrebbe partecipato a una sfilata all'interno dell'Ecole militaire di Parigi - spiega Watin -. Un ufficiale legato all'Oas abitava in un appartamento all'interno della caserma. Dal bagno di casa sua l'angolo di tiro era perfetto, avrei potuto centrare la testa di De Gaulle senza difficoltà. Le cose furono più semplici di come sono raccontate nel libro: il fucile, ad esempio, non era un'arma costruita su misura, ma un modello normale, un "Herstal" belga di alta precisione che ero riuscito a portare dentro la caserma. Il giorno dell'attentato sarei dovuto entrare nella scuola militare vestito da ufficiale, non da vecchio reduce senza una gamba come si vede nel film. Ma quando stavo per varcare il cancello uno dei nostri mi avvisò di tornare indietro: qualcuno del gruppo si era ubriacato al circolo ufficiali e aveva raccontato tutto». «I francesi che schifo» Watin riuscì a cavarsela ancora, e qualche giorno dopo si rifugiò in Svizzera. «I membri dell'organizzazione erano ormai tutti morti o in galera. Anch'io venni arrestato, ma gli svizzeri non concessero la mia estradizione: avevo diverse condanne per omicidio e rapina, ma tutte di natura politica. Rimasi in carcere per diversi mesi e alla fine del '64 mi trasferii in Paraguay, l'unico Paese che avesse accettato la mia richiesta di asilo». Secondo varie informazioni, sembra che per qualche anno Watin abbia messo le sue competenze «tecniche» al servizio della polizia segreta del regime. Dopo l'amnistia generale del 1970, ha ottenuto nuovamente il passaporto francese, e non ha più conti in sospeso con la giustizia del suo Paese. Ma da allora è tornato in Francia solo due volte, per pochi mesi. «Non c'è più nulla per me, lì - dice -. Non voglio rivedere i miei vecchi compagni, gli incontri dei reduci mi fanno orrore. E gli altri francesi ci hanno tradito, mi fanno schifo». Trent'anni dopo, si pente di qualcosa? «Sì, di non aver ucciso neanche un decimo di quelli che l'avrebbero meritato - risponde senza esitazione lo Sciacallo -. Se fossi più giovane, starei combattendo da qualche altra parte del mondo, in fondo non c'è niente di più importante che un uomo possa fare. Ma ormai sono vec chio, e posso solo aspettare la morte: è l'unica esperienza che non ho ancora fatto». Gianluca Bevilacqua «Una mia raffica passò vicinissima al Presidente, poi il mitra si inceppò. Fu magnifico» «Uccidere il "grande traditore" per non perdere l'Algeria» 1 A fianco, Charles de Gaulle. Sotto il titolo Georges Watin, il vero «sciacallo»: oggi ha settantanni e si nasconde in Paraguay Lo scrittore Frederick Forsyth autore del best seller «Il giorno dello sciacallo». In basso l'ex dittatore del Paraguay Alfredo Stroessner