L'ultima metamorfosi del camaleonte Bowie

16. I DISCHI L'ultima metamorfosi del camaleonte Bowie AMALEONTI si nasce. E quali migliori tempi di quelli attuali per continuare a giocare con le diverse stagioni e i diversi suoni del rock? David Bowie ci va a nozze: la sua arte è basata sulla suggestione, visuale e verbale, sulle allegorie implicite nei suoi gesti, sul gioco dei contrasti e sulla trasformazione continua. Bowie manipola da decenni l'eversione insita nel rock fino a farne una forma di spettacolo totale, anche se il suo teatro della provocazione rappresenta in realtà il patetico tramonto di un'epoca di illusioni. Le sue ultime incarnazioni non sono state delle più riuscite. Ritornato sui suoi passi (ben altri rispetto a quelli di Celentano) a guidare da cantante un gruppo di rock urbano (i Tin Machine), non ha convinto pienamente della sua sincerità. Giudizio senza dubbio ingiusto, ma questo scetticismo è legato decisamente alla incostante qualità dei dischi e dei concerti prodotti dalla formazione. Al primo congedo dai Tin Machine, il trasformista Bowie ha inventato una tournée tutta affidata a suoi grandi successi, con un cinismo sfacciato. Come il pastore che grida al lupo, Bowie ora ha difficoltà a smuovere le folle, che dica la verità o una menzogna. Per uscire dal classico guado, David Bowie si è così impegnato con questo ultimo album «Black tie White noise» (Arista-Bmg, 1 Cd), audace manovra di depistaggio, realizzata con il concorso da produttore di Nile Rodgers, ovvero l'incarnazione della dance music da 15 anni e con il quale Bowie già realizzò nel 1983 «Let's dance». I due sono troppo furbi per riproporre la stessa minestra. Questo album si propone come un manifesto modernista, assorbendo e restituendo le tendenze più emergenti della musica contemporanea, a bordo della pista da ballo, tra raves e ghetti. Intenzioni ed esecuzioni con un chiaro carattere di compromesso. Lo porta inevitabilmente l'età dei due protagonisti, 46 anni Bowie e 40 Rodgers. La musica che realizzano è un chiaro adattamento all'uso per adulti. Il brano strumentale «Pallas Athena» è l'esempio più evidente: un ritmo «house» molto lento, alcuni raffinati carillon per non sconvolgere. Stabiliti questi limiti, si raccolgono in «Black tie White noise» i migliori momenti di Bowie da dieci anni a questa parte. Dicevamo Bowie ci va a nozze, anche nel senso che tutto il disco è I stato composto come un'ode I al suo recente matrimonio con la modella Iman: elegantemente sentimentale la ballata soul «Don't let me down & down», teatrale l'adattamento di «I know it's gonna happen someday», bella canzone del bravo Morrisey degli Smiths. Ma anche energico, rivestendo di nuovo collaudate idee, come «Black tie White noise», la canzone-titolo, che rende molto a «Fame», composta con John Lennon nel 1975. C'è poi l'impressione che Bowie abbia cercato di illineare le canzoni in un modo preordinato: dure e spigolose all'inizio, poi via via sempre più fresche e addolcite. Quasi un'uscita da un'angoscia, un ritornare alla luce dell'alba dopo una notte in un'infernale discoteca. Lo stesso uso dei colori jazz, passa dagli ermetismi alle leggerezze delle grandi orchestre. Ottimo il gruppo di musicisti riuniti per ^(operazione lifting»: il chitarrista Mick Ronson, il pianista Mick Garson, il cantante soul Al B. Sure, il trombettista jazz Lester Bowie (importantissimo per il tessuto sonoro dell'album). Un disco irreprensibile sul piano musicale. Manca un'idea alla vecchia maniera di Bowie. Continuiamo sulla strada danzerina e delle ricerche sonore. E troviamo i Deperire Mode, amati da Wim Wenders, con «Songs for faith and devotion» (MuteBmg, 1 Cd). Maturati nel corso dei dieci anni di carriera, i quattro londinesi hanno ripercorso lo stesso solco del precedente album. Si ritrovano una gravità simile, le ossessioni (religione, sesso, amore, fedeltà), le ambientazioni sintetiche. Inediti i riferimenti a gospel e soul. In ogni canzone si mantiene in buon equilibrio tra emozione e melodramma, intuizione e calcolo. Un lavoro d'artigiani adattato alle esigenze dell'industria. Il loro fascino e il loro limite. Poi tocca a Lenny Kravitz e il suo «Are you gonna go my way» (Virgin, 1 Cd). Musica energica, rock coinvolgente e moderno. Pagando un debito-omaggio a tante stelle di prima grandezza. Il brano che dà titolo all'album è un tributo, chitarristico e vocale, a Jimi Hendrix. Lennon, Prince, Stevie Wonder e Marvin Gaye si incontrano lungo le undici canzoni proposte. Kravitz non è un campione di originalità, ma è divertente con le sue chitarre che emettono fiamme, con la sua abilità di polistrumentista (qui arriva anche al flicorno) e la sua miscela di culture (molto efficace il languido assolo latino di «Just be a woman»). Alessandro Rosa >sa |