Picasso nel Mulino Bianco

Un industriale a caccia di capolavori I tesori della collezione Barilla esposti alla Fondazione Magnani Picasso nel Mulino Bianco Un industriale a caccia di capolavori fi PARMA | ' HI ha assistito l'altra seI ra alla Scala a una delle 1 i ultime repliche di PaS^lgliacci, al termine della serata non può non aver beneficiato di un curioso, insolito spettacolo: dall'austero teatro sciamavano nella notte - come in una fantasia alla Steinberg miriadi di professori d'orchestra, eccitati replicanti, che, invece di rincasare con sé gli abituali strumenti musicali, cercavano con allegro e imbarazzato impaccio di trascinare sotto braccio un voluminoso pacco-regalo. Era un'incisione dello scultore Vangi, ispirata alla sua opera il Nodo: generoso dono di Pietro Barilla, per ringraziare i componenti dell'orchestra che la sera prima avevano celebrato con Riccardo Muti i suoi fervidi ottant'anni al Regio di Parma. Forse in questo gesto-dono sta concentrato un poco tutto lo spirito d'amatore d'arte e di mecenate dell'industriale parmigiano, che così ha appunto voluto festeggiare il suo fortunato genetliaco, aprendo le porte della sua invidiabile collezione al grande pubblico: l'arte non va goduta egoisticamente, in solitudine, ma va comunicata, mostrata, «parlata» agli amici, ai complici. Magari attraverso un piccolo regalo, che può seminare negli altri la contagiosa passione del collezionismo. Del resto l'emozionante rassegna che si è aperta (sino al 28 novembre) alla Fondazione Magnani di Corte di Mamiano, a Traversetolo, presso Parma, non ha violato i forzieri di una casa catafratta agli sguardi dei curiosi, ma ha letteralmente depredato gli uffici, i padiglioni, le sale di rappresentanza della ditta Barilla: e pare che qualche dipendente si sia mostrato già lamentosamente vedovo di opere sottratte all'abitudine delle pareti. Letteralmente, l'attento curatore della mostra, Roberto Tassi, che insieme a Giorgio Soavi e a Simona Pizzetti ha curato la scelta delle opere (120 su una totalità di oltre 400), è andato a ripescare queste tele o sculture qui e là, nel laborioso territorio dell'industria alimentare, dove spesso riposavano inosservate sotto la polvere dell'assuefazione: saloni di mensa, corridoi poco frequentati, terreni di raccor¬ do fra i vari edifici (non dimentichiamo che il giardino della villa Magnani è ora punteggiato da sculture di Pomodoro, Cascella. Manzù, Ceroli). Ed è commovente sentir confessare dall'artefice di tante scelte azzeccate: «E' la prima volta che mi par di vedere "per la prima volta" la mia collezione, che mi accorgo della sua coerenza». Ma, attenzione, Barilla non dissemina di opere la sua sterminata fabbrica per distrazione, per esubero di lusso, per neghittosità di ricco possidente che non sa più dove piazzare i suoi tesori: tutt'altro. Non concepisce nemmeno l'idea di soffocare queste tele, acquistate per amore, per ben calco¬ lata scelta passionale, su una parete sorda, egocentrica della propria casa: vuole condividere questo entusiasmo, contagiare gli altri, regalare una vita continua, sociale, a queste opere vive. «Quando Pietro ha cinque minuti di libertà compra un quadro», inventa, mitologicamente, Soavi, nel suo appassionato ritratto-racconto. E infatti avverti subito, entrando nella Villa Magnani, che non si tratta di una collezione «fredda», ragionata, finalizzata a una speculazione anche economica, sagace. Ti viene subito incontro il vento amichevole della dedizione lietamente maniacale, dolcemente imperiosa, tipo «voglio assolutamente quel quadro», che ti fa girare per il mondo e manda in visibilio i galleristi sensibili. E come non farsi mallevadori di quei portentosi «furti», se ci si trova di fronte a un tenebroso scurore di collina incantata, come quella di Boecklin per esempio, con un gigantesco, violaceo Prometeo che vi si distende mimetizzato sulla sommità come una nuvola stanca; oppure il gesto silente e iniziatico d'una vergine immateriale di Burne-Jones sul punto di varcare una soglia misteriosa, pallida come la sua carnagione; oppure il formidabile Ensor formicolante di materia e di oggetti, di conchiglie e di vibrante atmosfera. «Se esco dalla verità sono perduto» afferma Barilla nel sapientissimo saggio di Roberto Tassi, che introduce l'elegante catalogo Guanda, fondendo biografia e linea del gusto. Ed è qualcosa che, rabdomanticamente, ritroviamo anche nel filo delle scelte di Barilla. Qualcosa di inafferrabile ma di perentorio. Forse proprio quel senso di gioia di vivere e insieme di sana concretezza, di cui parlano Soavi e Tassi: che effettivamente lo inducono a previlegiare anche la scultura (un'eccezione, sostanzialmente, per le collezioni italiane) e poi ad amare soprattutto la pittura di materia, di tattile instintualità, che sia figurativa o informale non importa. Ma non ci sono qui, e per fortuna, i giochini sterili e snobistici dell'arte concettuale, i tardi avanguardisti; ci sono però gli autentici, ' i Boccioni pre-futuristi, i Sironi, i Léger, un folgorante Picasso, paesaggi squisiti di Morandi e molte «paste» acquitrinose di Morlotti. Mancano, a ben riflettere, gli astratti frigidi, raziocinanti- (ci sono gli astratteggianti caldi, fantasiosi, come Afro o Soldati, i «musicisti» come Melotti, Riopelle o Cinghine, mentre curiosamente non compare Licini). E' forte la pulsione fantastica, Max Ernst, Magritte, Chagall, de Chirico, Savinio (padre e figlio), Sutherland, perfino Clerici e Guarienti: ma come dimenticare la nebbiosa mareggiata dei Musio, o le sabbie ipnotiche di Mattioli, i Marino, i Manzù, lo scattante Rodin o l'incantata «sala» dei Velly (di cui a Roma, «riverbera» alla Galleria Don Chisciotte un'eco fascinosa di retrospettiva)? Non c'è modo di citare tutto: ma forse è vero, la Galleria Barilla è soprattutto un inseguirsi di cieli. Il cielo algido, ferito di un portentoso Fontana; quello arroventato, cellophanato di Burri oppure nero, urlato d'umanità di Bacon. Il cielo vuoto, di cerotto della fuggevole veduta di De Pisis oppure quello courbettiano, intorbidito di mota di un memorabile Per moke; quello infuocato di verde fiammante di Soutine o infine quello che su tutti accalappia, stregante, strepitoso De Staèl, che trepida di trasparenze veneziane. Marco Vallerà

Luoghi citati: Parma, Roma, Traversetolo