«Ho quasi ucciso Saddam» di Fabio Galvano
«Il piano fallì all'ultimo minuto Fuggii in Siria Una spia cercò di avvelenarmi» Il Raiss doveva morire nell'esplosione di una villa alla periferia di Baghdad «Ho quasi ucciso Saddam» Un esule racconta: vivo braccato COMPLOTTO SULLE RIVE DEL TIGRI LONDRA DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Saddam Hussein doveva morire nella colossale esplosione di una villa a pochi chilometri dal suo palazzo sul Tigri. Ma l'attentato, nell'estate del 1991, fallì per il tradimento di qualcuno e Baghdad fu falciata da arresti ed esecuzioni. L'errore, dice Hussein al-Juburi, fu di attirare curdi e sciiti nella congiura, per allargarne la base politica e «non far credere che la lotta contro Saddam fosse unicamente un gioco di potere fra tribù sunnite». Hussein al-Juburi è l'uomo venuto — avventurosamente — dal buio. E' colui che tirava le fila della cospirazione: dopo due anni di fuga e il ricovero sotto falso nome in un ospedale inglese (dopo il tentativo dei servizi segreti iracheni di avvelenarlo), ha raccontato per la prima volta la sua drammatica storia. «Non tutti i congiurati — dice — sono stati arrestati. Qualcuno prima o poi riuscirà nell'intento». Hussein ha 42 anni. Professore di economia all'università di Mosul, appartiene al clan dei Juburi che fornisce l'elite dei quadri militari. Unico civile del gruppo, era il solo a potersi muovere liberamente. Imparentato con quasi tutti gli altri cospiratori, poteva vederli senza destare sospetti. Era il messaggero, insomma, il coordinatore; l'uomochiave dell'intera operazione che scattò il 21 aprile di due anni fa, quando Hussein al-Juburi e altri cinque, seguendo vie differenti per ingannare eventuali pedinatori, si riunirono a Ninive. Il più anziano, l'influente colonnello Mozahim al-Juburi, diede la notizia che tutti attendevano. Saddam, disse, avrebbe lasciato la relativa sicurezza del suo palazzo per visitare alcuni amici, protetto soltanto da una manciata di militari. Una scena ideale per l'agguato. Ma l'idea di arrestare Saddam, e poi processarlo, fu giudicata troppo ambiziosa. «Un sogno», dice Hussein. Molto più semplice sarebbe stato mettere una bomba nella villa. Il 26 agosto Hussein al-Juburi andò a Baghdad. Doveva incontrare, a uno a uno, tutti i congiurati. Portò con sé il figlio Omar, di otto anni, servendosene come alibi e paravento. L'indomani tutto era pronto, i congiurati stavano per entrare in azione. Ma poche ore prima dell'attentato uno degli ufficiali golpisti fu arrestato. E subito, a raffica, altri fecero la stessa fine: del colonnello Mozahim, del maggiore Mahmoud, dello scrittore Ahmed Hassan, di Sheikh Rokan, tutti del clan dei Juburi e tutti vittime della feroce vendetta di Saddam, non si sarebbe avuta mai più notizia. Altri — il brigadiere Abdul Karim, il colonnelo Amin e il colonnello Damen, furono arrestati. Ma chi aveva parlato? «Avevamo deciso di allargare la nostra base», ricorda Hussein al-Juburi: «Avevamo paura che, una volta ucciso Saddam, sarebbe stato difficile ottenere l'appoggio del popolo iracheno, se avessimo dato l'impressione che si trattava semplicemente di una lotta interna, di una presa di potere da parte di un'altra tribù sunnita. Avremmo fatto la stessa figura che avevano fatto i Tikritis di Saddam». Ecco allora i curdi e gli sciiti del Sud. «Un errore cruciale», dice oggi Hussein alJuburi. Furono momenti disperati, drammatici. Braccato dai servizi segreti, Hussein cercò di tornare a casa, a Mosul. Ma quando vi arrivò l'edificio era completamente circondato dai militari. Fuggì allora a Nord, nel Kurdistan iracheno; poi, con l'aiuto dei peshmerga curdi, riuscì a riparare in Siria. Non era che l'inizio di una lunga odissea, mentre gli sbirri di Saddam arrestavano sua moglie, i suoi figli, le due sorelle, l'anziana madre. Soltanto più tardi i suoi familiari sarebbero stati liberati. «Il nostro clan — spiega Hussein — ha peso in Iraq. Il governo si convinse che era ingiusto prender¬ sela con donne e bambini». Ma la lotta contro Saddam non si era conclusa. Due dei congiurati, rivela Hussein al-Juburi, hanno tentato una seconda volta di uccidere il dittatore: con un mortaio, mentre da una tribuna assisteva a una parata militare. Anche il secondo-attentato è fallito: uno dei cospiratori, il generale Mohammed al-Juburi, è stato arrestato mentre si dirige¬ va alla parata e sommariamente giustiziato. Eppure gli sforzi continuano. «Dobbiamo eliminare Saddam», insiste Hussein alJuburi. Intanto gli uomini del dittatore erano riusciti a mettersi sulle sue tracce. E fu proprio nella fuga, da un villaggio all'altro, che Hussein cadde in un tranello che avrebbe potuto essere mortale. Il muchtar di un villaggio siriano, che aveva conquistato la sua fiducia spacciandosi per vecchio conoscente di certi suoi parenti, gli propinò un tè al tallio. E' il veleno preferito dai servizi segreti di Baghdad: al Guy's Hospital di Londra, dove Hussein alJuburi fu ricoverato dopo inutili cure a Damasco, sono tanti i nemici di Saddam che il centro di tossicologia è soprannominato «il reparto iracheno». A Londra Hussein fa la vita del recluso. Non si è ancora rimesso dall'avvelenamento, è invecchiato precocemente. Ma è vivo e ha potuto raccontare la sua avventura prima di tornare nel buio. Fabio Galvano «Il piano fallì all'ultimo minuto Fuggii in Siria Una spia cercò di avvelenarmi» Il dittatore iracheno Saddam Hussein Nelle foto piccole Tarek Aziz e l'ex presidente Usa George Bush
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