Un dolore premiato col Pulitzer

Drammatica inchiesta di un giornalista investigativo del «Washington Post» Drammatica inchiesta di un giornalista investigativo del «Washington Post» Un dolore premiato col Pulitzer Vince raccontando l'omicidio della figlia CRONISTA DELLA SUA TRAGEDIA WASHINGTON DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Non ci può essere alcun dubbio sul fatto che, tra tutti i vincitori del Pulitzer di quest'anno, George Lardner Jr. è l'unico che avrebbe preferito non ricevere il premio. O, perlomeno, non avrebbe per nessuna ragione al mondo desiderato di ottenerlo per l'articolo che gli ha fruttato la vittoria. L'articolo, intitolato «La persecuzione di Kristin», è la meticolosa ricostruzione che un grande cacciatore di notizie del «Washington Post» ha compiuto sulle vicende che hanno condotto all'assassinio della sua figlia più piccola, più estrosa e, forse, più amata. Kristin aveva 21 anni nel maggio del '92, quando due pallottole di una Colt calibro 38 le fulminarono il cervello su un marciapiede di Boston. Sei mesi dopo, Lardner, in diciannove, dettagliate, fredde e struggenti cartelle, ha documentato la sua rabbia per quella morte che avrebbe potuto essere evitata se il sistema giudiziario americano «non guardasse sempre dall'altra parte». Michael Cartier, infatti, l'ex boy friend respinto perché maniaco e violento, avrebbe dovuto essere in carcere e non vicino a Kristin su quel marciapiede. Lardner è un famoso giornalista investigativo, avendo «coperto» per il «Post» le indagini seguite all'assassinio di John Fitzgerald Kennedy, l'omicidio di suo fratello Robert, la brutta storia di Chappaquiddick, occorsa all'altro Kennedy, Ted, e il processo per il caso Watergate. Ma la storia che lo ha introdotto nel Pantheon dei grandi del giornalismo americano è stata, purtroppo per lui, questa triste vicenda personale, cominciata con quella terribile telefonata da casa: «Il telefono squillava con insistenza, costringendomi a correre verso il mio tavolo. C'era mia figlia Helen sulla linea, singhiozzando così forte che poteva appena respirare. "Papà - ha strillato - vieni a casa subito". Ero sconvolto, non l'avevo mai sentita così. "Che è successo, cosa c'è che non va?". "Si tratta di Kristin. Le hanno sparato... è morta". Kristin? La mia Kristin? La nostra Kristin? Le avevo parlato il pomeriggio prima. Le sue ultime parole erano state: "Ti voglio bene, papà". Il respiro cominciò a mancare anche a me». Qualche tempo dopo, parlando con un poliziotto del Massachusetts, e chiedendogli come mai potesse essere successa una cosa così assurda e, nello stesso tem- po, così annunciata, quell'omicidio da parte di uno spostato che aveva violato più volte la libertà vigilata, che aveva già picchiato, preso a calci e minacciato Kristin, Lardner si sentì rispondere: «Lei è un reporter, non è così?». «Allora - ricorda - mi sentii bruciare di vergogna, perché avevo solo una vaga idea di quanto era successo a mia figlia». Lardner si mise al lavoro, concentrandosi soprattutto sulla storia di quel ragazzo infelice e bacato che, dopo avere ucciso Kristin, era corso a sdraiarsi sul suo letto e si era sparato un finale e liberatorio colpo di pistola ad una tempia. Michael Cartier era bello, aveva un castello tatuato sul collo e faceva il buttafuori in una discoteca. La sua stessa prepotenza inteneriva per l'insicurezza che lasciava trasparire. A Kristin, pittrice, studentessa alla Scuola d'Arte di Boston, vivace, originale e dolcemente stravagante, sempre vestita di nero, con i capelli che cambiavano spesso colore, quel tipo era piaciuto. Naturalmente, Kristin non conosceva tutta la storia di Michael, ma, do- po due mesi e mezzo, aveva già capito a sue spese quanto le bastava per troncare di netto il rapporto. Michael era nato da una madre diciassettenne e da un padre alcolizzato, che abbandonò subito la famiglia, sposandosi, dopo di allora, altre due volte. La rabbia di Michael si diresse verso la ma¬ dre, che diceva sempre di voler uccidere, cercando di coinvolgere nel regolamento di conti anche la sorellastra. Tutte le scuole che aveva frequentato prima di farla finita con gli studi erano specializzate in bambini e adolescenti disadattati. Aveva già trattato male una ragazza, Rose Ryan, che l'aveva lasciato e che lui aveva preso a perseguitare, a minacciare di-morte, a stringere d'assedio. Fino ad essere arrestato. Ma aveva poi trovato, in carcere, uno psicologo comprensivo e venne dimesso con la motivazione secondo cui «era stato un carcerato modello». Questo, nonostante, dal carcere, continuasse a fare telefonate minatorie a Rose, facendole scrivere lettere oscene da tutti gli altri carcerati. Uscito, la malmenò. Di nuovo in carcere, di nuovo dimesso. Cominciò a picchiare regolarmente anche Kristin, a cui, oltretutto, ammazzò, schiacciandogli la testa sul pavimento, un gattino che le aveva regalato. Poi una sera, per strada, la prese a pugni. Kristin, finalmente, si confidò con i genitori e, soprattutto, andò alla polizia. Ma erano sempre poliziotti diversi a trattare il caso e, comunque, dalla fedina di Michael erano stati cancellati i precedenti più gravi, per cui nessuno si decideva a chiuderlo di nuovo in galera. Fino all'omicidio, un mese dopo il quale un tribunale ordinò finalmente il suo arresto. Ma non c'era più nessuno da arrestare. E di Kristin, nella memoria di Lardner, è rimasto soprattutto «il suono di quella voce che sorrideva», nell'ultima telefonata un giorno prima di morire, quando sperava di essersi buttata Michael dietro le spalle. Paolo Passarmi Grave denuncia del sistema giudiziario negli Stati Uniti Il giovane assassino era stato scarcerato sebbene fosse «pericoloso» George Lardner (a destra) mentre festeggia con due colleghi la vittoria del Pulitzer

Luoghi citati: Boston, Massachusetts, Stati Uniti, Washington