Cochi, orgoglio e miseria di un senza patria di Osvaldo Guerrieri

Cochi, orgoglio e miseria di un sema patria Ponzoni e Orazio Bobbio sono l'intellettuale e il contadino nel bellissimo «Emigranti» di Mrozek Cochi, orgoglio e miseria di un sema patria L'attore ritorna in teatro dopo l'exploit tv con «Su la testa!» TORINO. Sono passati vent'anni da quando «Emigranti» di Slawomir Mrozek giunse per la prima volta sui nostri palcoscenici nell'interpretazione di Gastone Moschin e Giulio Brogi. L'impressione, allora, fu fortissima. Il seminterrato-prigione nel quale vivevano due personaggi fuggiti da qualche inferno dell'Europa dell'Est, lo scontro ideologico tra un intellettuale anarcoide e un contadino analfabeta, la loro disputa serrata sul modo di essere schiavi al di qua e al di là delle barriere politiche, avevano l'urgenza e l'ustione di una verità vitale che il linguaggio ioneschiano, le movenze buffonesche, il timbro dispettoso non intaccavano in alcuna parte. Sono passati vent'anni. E che anni. L'Est europeo ha perso le unghie persecutorie, di fuorusciti non si parla quasi più. Eppure, in questa cornice sfasciata, «Emigranti» conserva inalte¬ rata la sua potenza teatrale. Lo si vede dallo spettacolo di Francesco Macedonio, in scena all'Adua fino a domenica, nell'interpretazione di Orazio Bobbio e di Cochi Ponzoni, tornato al teatro dopo avere rinverdito con «Su la testa!» i fasti televisivi e cabarettistici. A parte il peso di qualche indugio dialettico, questo atto unico tradotto magnificamente da Gerardo Guerrieri si conferma stringente, incalzante, chiuso nelle prospettive come un uovo infrangibile, disperato. Già l'apparato scenografico di Gianfranco Padovani porta il segno della chiusura irrimediabile. Il sottoscala che ospita l'intellettuale e il contadino è un antro dai muri lebbrosi, senza porte, senza finestre, percorso da tubi incrociati, scarnificati, rugginosi. Qui i suoni esterni di una notte di capodanno arrivano deformati, quasi indecifrabili. Qui l'intellettuale e il contadi¬ no, bevendo una bottiglia di cognac e fumando un pacchetto di sigarette, misurano la diversità (o forse la somiglianza) del loro esistere. Il profugo politico vuole scrivere un saggio sulla schiavitù umana. L'altro spera di tornare presto in patria, di comprare una casetta in cui vivere con la moglie e i figli: a questo scopo lavora come un animale e nasconde il denaro guadagnato in un cane di pelouche. Per l'intellettuale quell'uomo rozzo e profittatore è l'incarnazione perfetta dello schiavo. E' stato schiavo prima del governo, ora della cupidigia; ed essere schiavi degli oggetti «è la schiavitù più perfetta di ogni prigione». Ma è davvero così? E' possibile che la schiavitù sia inappellabile? Per dimostrare di conservare un lampo di libertà, il contadino strappa il proprio denaro e tenta risibilmente di impiccarsi: ha capito che non potrà più tornare a casa. Così come capi¬ sce, l'altro, di avere fallito il proprio scopo, di avere smarrito, dopo quell'atto libertario, il simbolo dello schiavo ideale. E strappa i magri appunti, distrugge il suo mondo, singhiozza d'impotenza, mentre il contadino già russa sulla sua branda. Altro che teatro dell'assurdo, come pure è stato detto. In «Emigranti» si respira piuttosto il clima di Pinter, ma con i personaggi che vivono concretamente la loro vita, fumano, urinano, mangiano, si sbracano, russano, si surriscaldano in un'atmosfera livida, ciascuno con il proprio linguaggio e con il proprio stile, come maschere spesse e umanissime che Ponzoni e Bobbio interpretano con un'adesione secca, controllatissima, priva di narcisismi e di gigionerìe, illudendosi fino all'ultimo di non essere foghe, di non essere sillabe. Osvaldo Guerrieri

Luoghi citati: Europa Dell'est, Torino