Gabriel: ecco la mia messa laica di Marinella Venegoni

L'ex Genesis ha aperto a Stoccolma la sua tournée europea (a maggio in Italia) L'ex Genesis ha aperto a Stoccolma la sua tournée europea (a maggio in Italia) Gabriel: ecco la mia messa laica Ventimila a mani alzate per «Biko» Fantastica scenografia, a sorpresa STOCCOLMA DAL NOSTRO INVIATO I sanremofili se lo ricorderanno almeno per il tremendo colpo alla schiena che prese contro il palcoscenico del Festival, dieci anni fa, mentre con il viso dipinto da scimmia cantava dimenandosi appeso ad una fune «Shock The Monkey»; i più informati non hanno invece dimenticato la sua partecipazione all'ultimo Amnesty International Tour nell'88, al fianco di Springsteen e di Sting. Ma fra questi due fatti così lontani non solo nel tempo passa gran parte della carriera di Peter Gabriel, l'artista inglese fino al '75 membro dei Genesis che conosce il successo pieno solo ora, a 42 anni, nell'età in cui per altri comincia spesso il declino: gusto per la teatralità nella musica e passione politico/sociale sono, con l'amore per la world music di cui è stato il precursore assoluto (ben prima di Paul Simon), i cardini sui quali si è retta in tutti questi anni la sua attività artistica. A dare man forte alla consacrazione definitiva di Gabriel in tutto il mondo è stato soprattutto l'impegno. Ma chiusa l'esperienza con l'affermazione che «certe adunate rock per raccogliere fondi, alla fine, rischiavano di diventare solo aste di beneficenza, e ora altri attori, registi, pittori - dovrebbero mobilitarsi», egli è tornato all'attività principale: è nell'agone dallo scorso settembre con un album assai intrigante, «Us», prodotto con Daniel Lanois e con la supervisione del mago Brian Eno, nel quale sono raccolte tra l'altro le sue esperienze di cinque anni con la psicanalisi. E l'altra sera ha cominciato alla mastodontica Globe Arena di Stoccolma, davanti a circa ventimila persone, un tour che passerà per l'Italia in maggio e che non a caso s'intitola «Secret World Tour»: una sorta di ipnotico, pittoresco e movimentatissimo viaggio all'interno del suo Io segreto, interrotto soltanto da alcu¬ ne delle canzoni più conosciute fra le quali, pel gran, finale, «Biko», dedicata al giovane morto di apartheid, che resta sempre una specie di messa laica celebrata da tutta la platea con grande emozione e con le mani alzate. Lo show/concerto esalta il gusto della rappresentazione visiva delle canzoni. E' uno spettacolo da non perdere, per la fantasia con la quale Gabriel stesso, con l'aiuto del regista Robert le Page (autore di un recente, fortunatissimo «Sogno di una notte di mezza estate» al National Theatre di Londra), ha messo in piedi una struttura mai vista. Un palco tradizionale che, attraverso una passerella lunga una trentina di metri e attraversata da un nastro trasportatore, si collega ad un al¬ tro palco rotondo, situato proprio al centro del parterre. Ma all'inizio, quando l'artista vestito di bianco invita nel suo mondo cantando «Come Talk to Me» («Qualunque cosa la paura inventi, scommetto^ che non ha senso... vieni giù, vieni a parlare con me»), niente lascia presagire che la serata sarà così poco tradizionale. Gabriel si muove fra i due palchi; saltella tutto solo sulla piattaforma centrale, con esiti di grande eleganza, in «Games Without Frontiers», forse a rappresentare l'estrema solitu dine dell'artista. La sorpresa arriva con l'ipnotica «Across The River»: seguito da poche luci, egli si muove con una pagaia in mano sul tapis roulant, e sembra davvero che stia remando. Un momento magico anche per il forte impatto emotivo della musica (il pezzo risale all'81), al quale fa seguito una bombardata di altri piccoli e grandi colpi di scena. Eccolo su una zattera, nella liquida «San Jacinto», con tutti i musicisti della band che cambiano palco con lui; poi eccolo spuntare dal pavimento coricato su un letto per «Love Town». E in «Digging in the Dirt», che raccoglie l'invito degli psicanalisti ad affrontare le ansie e il buio profondo che sono dentro di noi, indossa una complicata cuffia dalla quale spunta una lampadina che gli spara in viso e che altro non è che una telecamera: il suo viso viene ripreso dal grande schermo in primissimo piano, mentre sta seduto su di un'enorme faccia scolpita. Affascinante, questo mondo tutto interiore così mosso dalla scena; ma in questo caso la rilettura del brano risulta anche farraginosa ed eccessiva. Si chiude con una serie di valigie che attraversano i palchi sul nastro: nella più grande, aperta da Gabriel, entreranno per scomparire tutti i musicisti. Un fior di gruppo - David Rhodes alla chitarra, Tony Levin al basso, Manu Katche alla batteria, Joy Askew alle tastiere e Shankar al violino - asseconda al meglio lo spirito della musica gabrieliana: un misto di estrema, inglésissima cura, e di libertà sognata attraverso l'evocazione delle culture più diverse. Sogno di pulizia e di un mondo senza barriere, che i suoni realizzano assai bene. Successo grandioso. Marinella Venegoni Date italiane: 17 maggio Forum di Assago (Milano); 18 Palaghiaccio di Roma. :p;:;;::::v:; Peter Gabriel ha invitato il pubblico a cantare «Come Talk to Me»

Luoghi citati: Assago, Italia, Londra, Milano, Roma, Stoccolma