Torino, la borghesia e il Minotauro

Torino, la borghesia e il Minotauro inchiesta. Senza sindaco, la classe operaia «in cassa integrazione» e la Fiat nella bufera Torino, la borghesia e il Minotauro La società riscopre la tentazione della politica LE CITTA1 DECAPITATE M TORINO I trovo in questo palazzo vuoto, nella vuota sala rossa di un consiglio comunale sciolto. I vetri delle finestre hanno scuri alti e dorati. L'unica cosa viva è il calendario a mano, aggiornato chissà da chi ogni mattina. Il resto e archivio, arredo, memoria. Nella stanza grande del sindaco, il sindaco non c'è più. Al suo posto, simbolo involontario delle città decapitate di questa Italia '93, siede un commissario, il prefetto Riccardo Malpica: un viso meridionale, da napoletano saraceno, uomo colto, misurato. Misuro i passi su questo grande parquet a quadri logori e nobili. Mi guarda dall'alto Gianfranco Bellezia, il sindaco della pestilenza del 1630 e mi guarda anche Carlo Alberto, vestito di bianco, amletico, sconcertato. Le urne di vetro come bocce vuote. Il velluto liso, il conte di Cavour, tutto è sospeso in un tempo reale e immaginario. Qui si fa l'Italia o si muore. Di qui si guarda l'Italia mentre muore e risorge, naufraga, inclina di poppa, si riprende, naviga. Di qui si guarda un'altra Italia, perché questa città è la capitale di un progetto, d'una idea, d'un ideale. Torino, capitale decapitata. Non c'è sindaco, ma neanche sindacato. La classe operaia è «in cassa integrazione» e la Fiat è sotto le forche caudine dei magistrati. L'amministratore delegato Cesare Romiti mi accompagnerà più tardi a visitare l'aula magna di corso Marconi, la grande sala con gli impianti per conferenza. Tutto sembra sospeso e un po' plumbeo in questa vera, solida, taciturna capitale, centro di tutto: occorrerebbe una colonna di luoghi comuni per mettere in fila posti, fatti e benemerenze, dal Politecnico all'editoria, dal gusto per la severità e il ben lavorare, alla urbanità borghese. Ma più di tutto il fatto che Torino è stata la capitale dell'intelligenza e dell'intellighentzija, della grande industria e del grande sindacato, dell'ordine e della rivoluzione vagheggiata, del decoro e della rettitudine. Già con lo scandalo, remoto ma non rimosso, dei Biffi Gentili e delle tangenti maneggiate dal signor Zampini con il suo pizzo da alpino (che poi si è rasato), Torino aveva avuto un colpo di rasoio: sottile, con un filo di sangue, ma profondo. E anche questa furia di mostrarla e dipingerla come una città satanica, dedita a culti demoniaci, soltanto per l'attività da scantinati di quattro provinciali imbecilli, ne aveva un po' graffiato l'immagine. Ma oggi sembra, anzi è, una città in preda a una crisi di identità e di crescenza. • Non è soltanto questione del sindaco, che non c'è ma ci sarà dopo le elezioni di giugno con le nuove regole, le sole che questo Parlamento sbalestrato e tremebondo abbia saputo varare tra grandi doglie. No, c'è molto di più: c'è una borghesia di livello sopraffino che soltanto adesso, e timidamente, si riaffaccia alla politica con l'aria e lo sconcerto della bella addormentata che si sveglia all'alba del day after, come se fosse il primo giorno di primavera. E questa borghesia scopre che non esiste un'idea, un progetto, una credibile fantasiaper ridare testa e governo alla città decapitata. Il panorama della distruzione è desolante: il grande partito comunista non è più in yila (e Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer e Occhetto, sono tutti sardi, torinesi e sardopiemontesi; Natta è ligure, cioè limitrofo, ed è l'unico che ha lasciato); il duro sindacato, forgiato dal partito in funzione antagonistica del grande padronato industriale, è un disoccupato di fatto. Morto e penitente il terrorismo rosso, nato qui. Chiusa in quadrato la Fiat, che sta nella sua cittadella. L'avvocato Giovanni Agnelli mi riceve nel suo studio ed è garbato come sempre, ma la sua preoccupazione è palpabile. Torino è un po' meno silenziosa di un tempo. E anche un po' meno altera e orgogliosa di «quel grande silenzio che è la nostra virtù», come diceva una canzone di Pavese. L'aneddotica è quella canonica: se i romani abbandonano il lavoro per dieci, cento cappuccini; se i napoletani passano col rosso cantando "0 sole mio"; i torinesi - secondo un compiaciuto luogo comune - sono quelli che vedendo un cristiano affogare nel Po, lo lasciano colare a picco per non sembrare indiscreti e non violare la privacy. Sorridendo con una punta di mestizia, anzi di amara ironia, il capo della procura di Torino dottor Maddalena mi dice: «Sa, questa civilissima riservatezza torinese che tutela la privacy di ciascuno, è quella cosa che quando viene rilevata a Palermo si chiama omertà». Maddalena lavora duro, negli uffici di una Procura sparpagliata e ramenga. E' una figura di magistrato molto bella, un uomo nervoso, con capelli sottilissimi che volano insieme agli scatti del pensiero. Mi parla con disincanto delle gravi pecche di una società civile civilmente peccatrice, con un bel fondo di piccolo marciume (e talora grande) sul quale si impianta la muffa della corruttela e dell'evasione fiscale, l'habitat dell'ecosistema tangentizio. No, mi sembra di capire che la città e la cittadinanza, per quanto possa valere una sensazione generica e globale, non è vista dalla procura della Repubblica di Torino come una entità virtuosa, su cui fondare il regno del bene, sia pur civico. Ma ai miei occhi di laico démodé, non avvezzo né incline al vitalissimo mondo del solidarismo e delle iniziative cattoliche, Torino mostra un suo volto sorprendente. Sorprendente, s'intende, per un forestiero viaggiatore quale io sono. Perché, mi spiegheranno, Torino non da oggi e non superficialmente è stata e resta ima capitale della solidarietà, del cattolicesimo attivo. E infatti me ne devo render conto, con un senso di stupore e all'uscita della Consolata, fra il Cottolengo e il Rondò della Forca (nome che sento per la prima volta, subendone il fascino dell'esercizio di giustizia) uscendo da quegli edifici. Qui anche i santi sono stati prodotti con un certo criterio industriale e un certificato di garanzia: da san Giuseppe Cafasso che assisteva gli impiccati chiamati a ballare il triste rondò, a Don Bosco di Castelnuovo, sulla soglia del Monferrato, a 40 chilometri da Torino. Il rettore don Franco Peradotto, amabile e grande comunicatore, mi pilota fra gli ex voto dipinti, una pinacoteca di sciagure e naufragi, figure domestiche spropositate e altre minuscole, tutte dominate dal sangue e dalla salvezza. Soltanto in un altro posto del mondo, nella cattedrale «Do Bom Firn» a Salvador de Bahia ho visto un confrontabile museo della vittoria sul Male. Ma il punto più visibile e sorprendente di questo attivismo cattolico e solidaristico è l'Università, anch'essa acefala, spar- pagliata nelle sale cinematografiche prese in affitto, al Romano, al Lux, al Massimo. Sui muri si vedono cartelli di tenore religioso, oppure operativo. Dove un tempo campeggiava la scritta «Servire il popolo», oggi si legge «Studiare il bridge» («uno sport giovane per tutte le età»). E al Politecnico, luogo di ingegneri e matematici, si legge un imponente: «Non abbiamo paura del Caso. W Dio». Scritte contro Pelagio si fondono con citazioni di Cesare Pavese. E una frase di Guido Ceronetti: «Peggio che sterminati: infelici». A tavola con Gianni Vattimo, che indossa le insegne di «Al¬ leanza democratica» ci dedichiamo alla cucina toscana, condita con grandi fermenti democratici e poco vino, per non rimanere stecchiti nell'incipiente calura di primavera. Il filosofo spumeggia di allegrie e amarezze, illustrando l'impari compito di cui dovrebbe caricarsi la borghesia intellettuale, fin qui discretamente aventinizzata. E mima con irresistibile malizia lo sconcerto e l'incertezza, fingendo di essere imo scolaro impreparato: «Vedi? Non ho fatto i compiti. So la lezione così così». E' una casta civetteria, nel senso che un'intera classe dirigente sente di non aver fatto i compiti per anni, o di essersi dedicata soltanto alle attività del doposcuola. E questo, visto da Torino, sembra lo scorcio prospettico da cui appare l'intera penisola: una ex patria devastata dai politici di professione e da una classe equestre di affaristi senza rischio, da governare con un nuovo popolo, quello della borghesia intellettuale estranea alla politica, della produzione e delle intelligenze che di colpo si trovano come chiamate alle armi, convocate da una leva da spendere subito sul campo di battaglia, cui affidare le estreme sorti della Repubblica. * Incontro Giovanna Incisa Cattaneo, ultimo sindaco repubblicano prima della caduta delle istituzioni cittadine. Anche lei, come il prefetto Riccardo Malpica (e in fondo come tutti) è dell'idea che un sindaco debba governare e amministrare, invece di «far politica». Perché anche questo insegna il laboratorio-Torino: la politica uccide la capacità di amministrare. E dunque, si faccia politica, si parli di politica un sola volta, di fronte all'elettorato. E poi mai più: «Altrimenti è l'ingovernabilità. Meglio un commissario e poi le elezioni, che vivacchiare». Bionda, occhi azzurri, foulard, giacca principe di Galles beige, gonna grigia, mocassini marroni, la signora Incisa mi racconta il crollo bizantino della politica uccisa dal suo proprio stallo, dopo un quinquennio di giunte di sinistra che andarono bene finché non cominciò il duello fra pei e socialisti. Poi il 1983 con lo scandalo Zampini. Quindi la successione, nel settennio 1985-92 di Novelli, Cardetti, Magnani Noya, Zanone e infine lei. Per non fare, per non poter fare nulla: né piano regolatore, né «un solo buco» di metropolitana, con l'occupazione in calo, i poveri e gli emarginati in crescita. «La città si sbriciola», mi dicono alcuni allegri cittadini davanti all'edicola, sotto i portici di piazza Carlo Alberto. Si sbriciola, ma si avverte un certo tono da «citoyens», un'aria da Stati Generali che si legge nelle schiene dritte della gente che discute. E sulla cittadinanza dei citoyens si avverte che grava l'autorità morale delle figure cattoliche: decine di torinesi mi consigliano di conoscere suor Giuliana, al Cottolengo, figura straordinaria; e poi don Fini con le sue comunità per drogati ed Ernesto Olivero e don Ciotti, naturalmente. Torno nel palazzo comunale: il prefetto Malpica porta sul suo viso l'impronta dello Stato unitario. Ama Torino, ma vive da pendolare in albergo. Parla in modo suadente e appropriato del terremoto che viene dal centro, e che produce in periferia un pulviscolo detto «parcellizzazione», the rende incerti e confusi anche i torinesi, gente che ama le cose chiare e nette. Anche i terroristi brigatisti, i Franceschini, i Curcio, tutti coloro che hanno preteso di studiare il mostro cui prestavano le sembianze dello «Stato Borghese», guardavano il leviatano con occhi torinesi, dallo scontro di fabbrica. Poi hanno dovuto riconoscere che lo «Stato Borghese» era più un vermone che un drago, per colpire il quale non valeva la pena ammazzare tante povere vittime. La decapitazione di Torino è in realtà, se la metafora ci è consentita, una evirazione del toro antropomorfo: la virilità del minotauro era nella linearità degli scontri che si giostravano nella sua arena, tra Mirafiori e la città. Ma la plumbea ottusità e l'inclinazione al malaffare dell'amministrazione centrale, la voracità politica e l'incapacità di governare, hanno sottratto a Torino l'intero proscenio. Mancano i protagonisti, mancano gli attori, persino le comparse sono nei camerini a rivestirsi, e se si vuole che di nuovo si illumini la ribalta di una grande capitale, tocca al pubblico salire fra le quinte, provarsi barbe e gabbane, imparare a far politica e stare in politica. A Torino colpisce sempre la commistione delle etnie: quella lingua siciliana e calabrese che è diventata un vago piemontese, un ibrido doloroso e però molto forte. L'impressione che dà la città è quella dell'unico vero melting pot, miscuglio umano che si sia realizzato in Italia riassorbendo in una grande tradizione civile e civica un sottoproletariato e poi un proletariato, e poi una borghesia che è figlia di una patria minore, lontana e controversa, per molti, nemica. Per quanto eccentrica, vicina all'Europa, malservita dagli aerei e dai treni, quasi resecata dal resto del Paese, Torino resta quanto di più italiano, e al tempo stesso quanto di più sperimentale e traumatico, sia stato mai costruito nello Stato unitario. Se questa città fu chiamata a pagare un alto prezzo dalla dinastia dei suoi re, in nome del più grande regno, e poi della Repubblica, ne ha pagato imo che non ha confronti né con Milano, né con le altre città industriali. For se il suo destino può essere con siderato speculare a quello di Roma, la piccola cittadella della memoria e dei ruderi, devastata dalle metastasi della metropoli che non è e non può e.ssere. Ma Torino non ha subito il collasso: è in crisi, sta prowe dendo a un ricambio della classe dirigente, perché è e resta una città in grado di produrre due cose: antagonismi forti e classi dirigenti altrettanto forti. E Cesare Annibaldi, l'uomo delle relazioni esterne della Fiat, mi ricorda le tappe di questi scontri, la tortura e la crescita di questa città, le sue asprezze, la sua severità e anche alcuni suoi egoismi. Annibaldi interrompe fre quentemente il suo racconto e va alla vetrata della sua finestra, per guardare l'oggetto del suo discorso: «Eccola». E si vede che la ama e la teme, se ne sente parte e al tempo stes so vive distaccato, perché Torino è comunque una città ortogo naie, ruvida per forza, presidiata com'è dai suoi re di pietra e di bronzo. Paolo (Suzzanti I cittadini spronano gli intellettuali ad entrare nella classe dirigente Laboratorio di progetti e di idee per tutto il Paese E' stata e resta il crocevia del solidarismo cattolico. Qui anche i santi sono stati prodotti con criteri industriali. Nella foto sopra: il filosofo Gianni Vattimo Da sinistra: il prefetto Riccardo Malpica e l'ultimo sindaco della città la repubblicana Giovanna Incisa Cattaneo A destra: il cardinale Giovanni Saldarini Un'immagine di piazza San Carlo con il celebre «Cavai 'd Bròns» Cesare Annibaldi responsabile delle Relazioni esterne della Fiat